Credevo che mio figlio (4 anni)
fosse trans.
Mi sbagliavo
Madre lesbica e “vera credente” del culto queer accompagna e autorizza il suo bambino a identificarsi come femmina.
Finché non comprende di avere sbagliato a causa dell’ideologia.
Piangendo sul suo errore oggi ha intrapreso un percorso di “guarigione” insieme a lui che è tornato a dirsi maschio. Una testimonianza illuminante
Ero una “vera credente”
Ero un’attivista per la giustizia sociale prima ancora che il movimento per la giustizia sociale prendesse il sopravvento nel mondo.
Feci coming out come lesbica, e mi identificavo come “queer”.
Poi mi innamorai, intrapresi una relazione duratura con la mia compagna e partorii il nostro primo figlio.
Due anni dopo, la mia compagna partorì il nostro secondo figlio.
Avere figli, e provare verso di loro quell’amore e devozione che ti cambiano la vita, fu una svolta assoluta per me.
E fu allora che, per citare il sottotitolo del libro di Helen Joyce, l’ideologia iniziò a scontrarsi con la realtà.
Iniziai subito a sentire delle tensioni in me, tensioni tra ciò che intuitivamente e istintivamente sentivo in quanto madre e ciò che “avrei dovuto” fare in quanto genitrice bianca, anti razzista e per la giustizia sociale.
A causa delle mie stesse esperienze di vittimizzazione, percepite con il rifiuto della mia sessualità da parte dei miei genitori, volevo assicurarmi di onorare “l’autentico sé” dei miei figli.
Ero pronta a cercare qualsiasi indizio che avrebbe potuto suggerire che i miei figli potessero essere transgender.
Abbiamo allevato entrambi i nostri figli nel modo più “gender neutral” possibile, con vestiti neutri, giocattoli neutri e linguaggio neutro.
Facevamo in modo che tutto il linguaggio fosse “gender neutral”. Se leggevamo un libro o descrivevamo persone conosciute non dicevamo “uomo” o “donna”, bensì “persone”.
Pensavamo di fare la cosa giusta e migliore, sia per loro che per il mondo.
Quando era molto piccolo, notammo che il nostro primogenito era un po’ diverso.
Era molto sensibile ed estremamente dotato. All’età di circa tre anni iniziò ad orientarsi più verso le conoscenti femmine piuttosto che verso i maschi. Non avendo ancora il lessico per parlarne, diceva, “mi piacciono le mamme”.
Iniziammo ad attribuire alcune di queste differenze alla possibilità che fosse transgender.
Invece che orientarlo verso la realtà del suo sesso biologico dicendogli che era un maschietto, volevamo che fosse lui a dirci se si sentiva un maschietto o una femminuccia.
“vera credente”
Da vere credenti, credevamo che potesse essere transgender, e che fosse nostro compito farci guidare da lui per determinare la sua vera identità.
Nello stesso periodo in cui questa ideologia stava plasmando la mia visione di mio figlio, stavo anche studiando approfonditamente i temi dell’attaccamento e dello sviluppo infantile.
Questo mi aprì gli occhi nel capire che la natura dell’attaccamento è gerarchica, e che dovessero essere i genitori, e non i figli, a porsi come guide. Iniziai a sentire un forte conflitto tra la volontà di lasciare che fosse mio figlio a guidarmi sul suo genere e la consapevolezza, sempre più profonda, della mia responsabilità di guidarlo e orientarlo.
Purtroppo la mia convinzione ideologica ebbe la meglio.
Verso i quattro anni mio figlio iniziò a chiedermi se fosse un maschietto o una femminuccia.
Invece di dirgli che era un maschietto, gli dissi che poteva scegliere.
Non usai quelle parole – credevo di poter essere più sofisticata di così.
Gli dissi:
“Quando i bambini nascono con un pene vengono chiamati maschietti, e quando i bambini nascono con una vagina vengono chiamate femminucce.
Ma alcuni bambini nati con il pene possono essere femminucce e alcuni bambini nati con la vagina possono essere maschietti.
Dipende tutto da quello che senti dentro di te.”
Continuava a chiedermi che cosa fosse, e io continuavo a ripetergli queste frasi. Risolsi il mio conflitto interiore “guidando” mio figlio con questo schema – puoi nascere con un pene ma essere comunque una bambina dentro di te.
Credevo di fare la cosa giusta, per lui e per il mondo.
La sua domanda, e la mia risposta, sarebbero tornate a perseguitarmi per anni, e continuano a perseguitarmi ora.
Ciò che so ora è che lo stavo “guidando” – stavo guidando il mio bambino, innocente e sensibile, lungo un cammino di bugie che lo avrebbero portato direttamente ad avere danni psicologici e interventi medici permanenti e irreversibili per tutta la sua vita. Tutto in nome dell’amore, dell’accettazione e della liberazione.
Circa sei mesi dopo che mio figlio aveva iniziato a chiedermi se era un bambino o una bambina, disse alla mia compagna di essere una bambina, e che voleva essere chiamato sorella e “lei”.
Lo venni a sapere per messaggio, mentre ero al lavoro.
Tornando a casa quella sera mi dissi che avrei dovuto accantonare tutto ciò che sentivo e supportare mia figlia transgender.
Ed è proprio ciò che feci.
“Vera credente”
Cambiammo completamente la sua vita
Con quest’unica dichiarazione, dopo mesi in cui ci rifiutavamo di dire a nostro figlio che era un maschio, cambiammo completamente la sua vita.
Gli dicemmo che poteva essere una bambina.
Saltava su e giù sul suo letto, felice, dicendo:
“Sono una bambina, sono una bambina!”
(Che sollievo doveva essere per lui avere finalmente un’identità in cui riconoscersi definitivamente!).
Fummo noi, e non lui, a cambiare il suo nome.
Iniziammo la transizione sociale, forzandola anche su suo fratello minore, che all’epoca aveva solo due anni e che riusciva a malapena a pronunciare il vecchio nome di suo fratello.
Quando mi guardo indietro, parlarne è quasi troppo da sopportare.
Il dolore e lo shock per ciò che abbiamo fatto sono così profondi, così vasti, così pungenti e penetranti.
Come poteva una madre fare una cosa del genere a suo figlio?
Ai suoi figli?
Credevo veramente che ciò che facevo fosse puro, giusto e buono, per poi in seguito realizzare con orrore cosa tutto questo avrebbe potuto causare a mio figlio.
L’orrore mi scuote ancora nel profondo.
“Vera credente”
Cercammo gruppi di supporto per genitori di bambini transgender, e ci andammo per avere conferma di aver “fatto la cosa giusta”.
Dopotutto nostro figlio non presentava alcun segnale di vera disforia di genere: era davvero transgender?
In questi gruppi di supporto ci venne detto quanto fossimo bravi genitori, e che i bambini nello spettro autistico (e lui probabilmente lo è) semplicemente “sanno” di essere transgender prima degli altri bambini.
Ad uno dei gruppi di supporto che frequentavamo, ci fu anche detto che l’identità transgender impiega alcuni anni a svilupparsi nei bambini.
Ci dissero che in quel periodo era molto importante proteggere l’identità transgender del bambino e dunque di eliminare ogni contatto con ogni familiare o amico che non avesse supportato questa identità.
Sì, la “gender therapist” alla guida di questo gruppo di supporto disse davvero questo, e all’epoca le credetti.
Guardandomi indietro, ora vedo tutto in una luce completamente diversa: si trattava di un processo intenzionale di concretizzazione dell’identità transgender in bambini di tre anni (l’età del bimbo più piccolo in questo gruppo.
Quando l’identità si concretizza ad un’età così giovane, i bambini cresceranno davvero convinti di essere dell’altro sesso.
Come poteva non seguire un percorso di medicalizzazione?
La terapeuta usava anche lo stesso script che molti adolescenti usano con i loro genitori, aiutando i genitori dei bambini trans a scrivere lettere a nonni, zie e zii per dichiarare l’identità transgender del bambino, mettendo ben in chiaro le condizioni di partecipazione: devi usare il nuovo nome e i pronomi, e accettare la nuova identità, o non avrai più contatti con il bimbo.
Anche il figlio minore…
Dopo circa un anno di transizione sociale per nostro figlio maggiore, nostro figlio minore, che aveva soltanto tre anni, iniziò a dire di essere una bambina.
Fu un completo shock per noi. Nessuno degli aspetti che avevano reso nostro figlio maggiore “diverso” si applicavano al minore.
Si avvicinava più allo stereotipo del maschietto, e non mostrava la stessa affinità per le cose femminili del fratello più grande.
Iniziammo ad esplorare di nuovo l’attaccamento più in profondità, e ci rendemmo conto che la spinta verso “l’uguaglianza” è una spinta primaria nell’attaccamento.
Sentivamo che la sua dichiarazione di essere una bambina fosse molto probabilmente un desiderio di essere come il fratello maggiore, per sentirsi più connesso a lui.
La convinzione di essere femmina si fece più insistente quando entrambi i fratelli iniziarono la scuola part time, e il programma scolastico che frequentavano includeva la condivisione dei pronomi.
Perché il fratello maggiore poteva essere una “lei” e il minore no?
Nostro figlio minore si fece sempre più insistente, e noi diventammo sempre più afflitte.
L’ideologia si stava scontrando con la realtà e sgretolando ciò che avevamo sempre considerato una base solida.
Se nostro figlio minore voleva essere una femmina per motivi di attaccamento, poteva essere questo il motivo anche per nostro figlio maggiore?
Un attaccamento che lo spingeva ad essere uguale a me?
Prendemmo appuntamento con la “gender therapist” che ci aveva seguito al gruppo di supporto per parlare di nostro figlio minore.
Credevamo davvero che sarebbe stata in grado di aiutarci a capire se fosse o meno transgender, di distinguere cosa gli stava succedendo in quanto fratello minore di una “sorella” maggiore transgender e in quanto unico “lui” in una famiglia di “lei”.
Con il nostro sgomento, la terapeuta iniziò immediatamente a riferirsi a lui come “lei”, affermando che qualsiasi pronome un bambino di tre anni volesse usare sarebbe stato il pronome che lei avrebbe usato.
Con tono paternalistico, ci assicurò che avremmo potuto aver bisogno di più tempo per adeguarci, dal momento che i genitori spesso fanno fatica con queste cose.
Affermò che era transfobico credere che ci fosse qualcosa che non andava in nostro figlio minore se voleva essere come il maggiore.
Quando mi opposi e affermai che non ero ancora convinta che il minore fosse transgender, lei mi disse che se non avessi cambiato i suoi pronomi e onorato la sua identità, avrebbe potuto sviluppare un disturbo dell’attaccamento.
Non eravamo convinte, ma di nuovo volevamo fare la cosa giusta per nostro figlio, e per il mondo.
Decidemmo di dirgli che poteva essere una bambina, e quella sera a cena gli dicemmo che l’avremmo chiamato “lei”.
Subito dopo cena mi misi a giocare con lui e volevo affermare la sua identità.
Gli feci un grande, caldo sorriso e gli dissi:
“Ciao, bimba mia!”
A queste parole mio figlio minore si fermò, mi guardò, e mi disse:
“No, mamma. Non chiamarmi così.”
La sua reazione fu così chiara da farmi fermare.
Mi punse nel profondo.
Dopo questo, non mi voltai più indietro.
Da “vera credente”
a dubbio e tormento
Nei due anni successivi io e la mia compagna scavammo più in profondità, angosciandoci, e continuammo a scavare.
Tutto ciò che pensavamo di sapere o di credere, ciò che ci aveva portato a transizionare socialmente nostro figlio maggiore, iniziò a dipanarsi.
Continuai a studiare l’approccio di sviluppo basato sull’attaccamento e imparai di più sull’autismo e sulla ipersensibilità.
Iniziammo a vedere chiaramente che non solo nostro figlio minore non era transgender, ma che probabilmente non lo era nemmeno il maggiore.
Sapevamo che dovevamo fare qualcosa, ma faticavamo a capire cosa.
Tutto ciò che avrei voluto sarebbe stato poter tornare indietro nel tempo e disfare ciò che avevamo fatto.
Ma ero ancora intrappolata nell’ideologia.
Da un lato sentivo sempre più chiaramente che nostro figlio non era transgender, e che eravamo responsabili di averlo guidato verso quella strada per errore.
Dall’altro lato mi preoccupavo che, se veramente fosse stato transgender, gli avrei causato un grave danno annullando la sua transizione sociale.
Quel periodo fu profondamente angosciante e caratterizzato da una disperazione incredibile.
La realtà
In qualche modo, io e la mia compagna ci rendemmo conto che la verità era che nostro figlio non era una bambina transgender ma piuttosto un bambino altamente sensibile, probabilmente autistico, venuto al mondo senza una corazza, e per cui la struttura di sicurezze che l’identità femminile gli assicurava fosse una sorta di protezione, di difesa.
Gli forniva inoltre un modo di attaccarsi a me attraverso l’uguaglianza, e questo era un bisogno primario per la sua sicurezza nel mondo. Decidemmo che, dal momento che eravamo state noi a portarlo su questa strada, dovevamo essere noi a distoglierlo.
Vero sollievo
Un anno fa, poco prima dell’ottavo compleanno di nostro figlio, facemmo proprio questo.
Anche se il cambiamento iniziale fu difficile, estremamente difficile, l’emozione più immediata e tangibile che percepimmo da nostro figlio fu il sollievo.
Vero sollievo.
Nei giorni seguenti la mia prima conversazione con lui in merito al ritornare al suo nome e pronomi di nascita, al fatto che i maschi non possono essere femmine e che ci eravamo sbagliate a dirgli che poteva scegliere di essere una bambina, all’inizio era molto arrabbiato con me, poi diventò triste.
Il giorno dopo, invece, sentii che mio figlio riposava.
Sentii che stava lasciando andare un fardello, che si stava liberando di un fardello da adulti che lui, in quanto bimbo, non avrebbe mai dovuto portare.
Si sentiva incredibilmente sollevato.
Finalmente riposava.
Guarigione
Da quel momento, siamo in guarigione.
Lui è in guarigione.
Non è stato facile, ma mio figlio ora è felice e prospero.
Lo abbiamo guardato mentre raggiungeva una pace profonda con il suo essere maschio, e ora sta fiorendo e crescendo.
Per ora è al sicuro, e ogni giorno che passa cresce sempre di più nella sua identità.
Per quanto riguarda nostro figlio minore, anche lui è felice, prospero e in guarigione.
Non appena suo fratello divenne di nuovo suo fratello, si sistemò definitivamente nella sua identità di maschio, felicemente e quasi all’istante – un’ulteriore validazione della nostra intuizione riguardo alle spinte di attaccamento primarie alla base della sua ricerca di uguaglianza.
Paure
- Ho paura per il futuro, il futuro di un bambino sensibile, femminile e socialmente impacciato che ha passato la sua prima infanzia a credere davvero di essere una femmina.
- Ho paura di quello che la nostra cultura, le nostre istituzioni, i suoi coetanei e Internet gli diranno.
- Ho paura del potere dello Stato, che sembra deciso a distruggere le relazioni tra genitori e figli.
A prescindere da ciò che riserverà il futuro, non smetterò mai di lottare per proteggere i miei figli.
Non sono più una vera credente
Questa esperienza è stata per me come lasciare un culto, un culto che mi avrebbe fatto sacrificare mio figlio agli dei dell’ideologia gender, in nome della giustizia sociale e della liberazione collettiva.
Ho lasciato questo culto e non tornerò mai più indietro.
Una volta che un mattone è stato tolto dal muro che reggeva questo sistema di credenze, anche il resto dei mattoni è crollato.
Ora sto sistemando le macerie e cerco di ricostruire.
Ricostruire i miei valori, la mia visione della realtà, il mio sistema di credenze, il mio rapporto con me stessa, con i miei figli, e il mio modo di capire il mondo.
Qualsiasi cosa emergerà, la protezione dei miei figli rimarrà la bussola per guidare ogni passo sulla strada davanti a me.
FONTE: Feministpost
Traduzione in italiano a cura de Il Mondo Nuovo 2.0 con il consenso di PITT – Parents with Inconvenient Truths about Trans
Articolo originale qui