La Medicina che vogliamo
Inizia con questo articolo l’attività editoriale del Comitato Giuridico Scientifico (CGS) della Società Italiana di Medicina (in breve, la SIM).
Tengo a ringraziare innanzitutto gli autorevoli Colleghi e Colleghe che hanno aderito a questo progetto e alla costituzione del Comitato e che si impegneranno, al servizio dell’alta missione della SIM, in tre importanti settori di attività aventi per oggetto tematiche giuridico sanitarie: una attività formativa e congressuale dedicata soprattutto a sanitari e giuristi ma anche a tutti i cittadini, una attività editoriale che si concretizzerà nella redazione di articoli e contributi scientifici e divulgativi per le riviste e i social media di SIM, una attività professionale operativa, di consulenza e assistenza legale in ambito giuridico sanitario a favore di SIM, delle Associazioni sanitarie membre di SIM, dei loro associati e dei sostenitori.
Tengo poi a ringraziare gli amici medici del Consiglio Direttivo di SIM e le tante Associazioni di sanitari ad essa aderenti che hanno compreso, agevolato e infine approvato questo mio progetto.
L’auspicio di questo lavoro che noi giuristi andiamo ad iniziare è che il diritto alla Salute e i sommi principi ippocratici della Medicina umanistica e dell’Etica deontologica medica, scevri da conflitti di interesse di natura economico-finanziaria, siano riportati al rango di diritti individuali, costituzionali e fondamentali, non solo a tutela di ogni uomo e del suo diritto inviolabile ad essere curato secondo le proprie scelte e la miglior scienza e coscienza medica del caso concreto, senza discriminazioni di stato, con il massimo rispetto della sua dignità e delle sue libertà, ma anche a tutela della autonomia e della libertà di cura del medico e del sanitario, recentemente messa in serio pericolo da linee guida e raccomandazioni ministeriali e provvedimenti delle autorità regolatrici di settore di discutibile attendibilità, legittimità giuridica e valenza scientifica.
Il Giudice delle Leggi
e dei Diritti fondamentali
si piega alla falsa scienza
PARTE I
(a cura di Andrea Montanari, Olga Milanese, Laura Mana, Barbara di Tommaso, Fulvio di Blasi, Aldo Rocco Vitale, Teodoro Sinopoli)
In un precedente articolo (1) scritto a caldo dopo il comunicato stampa della Corte costituzionale del 1° dicembre scorso annotavamo che la Corte, sul delicatissimo tema della legittimità o meno dell’obbligo vaccinale cd. “anti-covid”, anticipava:
- l’inammissibilità, “per ragioni processuali”, della questione di illegittimità costituzionale sollevata relativa alla legittimità o meno dell’attività sanitaria svolta “da remoto” o “a distanza” da sanitario inadempiente al ciclo completo dell’obbligo vaccinale imposto dal DL 44/2021.
- la “non irragionevolezza” e la “non sproporzione” delle norme introdotte dal DL del governo Draghi sopracitato sotto forma di obblighi vaccinali imposti a carico del personale sanitario “nel periodo pandemico”.
- l’infondatezza della questione di illegittimità relativa al diritto al percepimento dell’assegno alimentare, a carico del datore di lavoro nei confronti del dipendente (inteso qui quale personale sanitario) sospeso e privato dello stipendio e di ogni altro emolumento in quanto non adempiente all’obbligo vaccinale.
Orbene, dopo una lunga fase di gestazione iniziata con la pubblica udienza di discussione del 30 novembre 2022, la Corte ha finalmente depositato, il 9 febbraio scorso, tre sentenze, la n. 14, 15 e 16/2023.
La sentenza n.16 è una sentenza di mero rito, cosicchè il merito della questione (quivi non esaminato e quindi non deciso) potrà essere riproposto alla Corte da qualsiasi giudice ordinario.
Noi analizzeremo quindi solo alcuni aspetti delle due sentenze di merito; la sentenza n.15 in questa odierna sede e, in un prossimo articolo, la sentenza n.14.
La sentenza n.15/2023 ha deciso sulle ordinanze del Tribunale del lavoro di Brescia (ben sette le ordinanze di rimessione), del Tribunale di Catania, del TAR Lombardia e sulla cd. “ordinanza Beghini” del Tribunale di Padova, in funzione di Giudice del lavoro.
I Tribunali remittenti sollevavano diverse eccezioni di legittimità sulle norme del predetto DL 44/2021 (oggi, come noto, non più in vigore ma rimasto in vigore per un periodo temporale di circa un anno e mezzo), contestando i seguenti quattro aspetti del citato provvedimento “emergenziale”:
– per il periodo di sospensione (del sanitario non adempiente all’obbligo vaccinale, n.d.r.), non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati;
– è da intendersi negato anche il riconoscimento dell’assegno alimentare (di cui all’art. 82 del d.P.R. n. 3/1957 e all’art. 68 CCNL del comparto sanità pubblica);
– è fortemente limitata l’adibizione del lavoratore non vaccinato a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, al fine di evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
– i lavoratori sanitari sono sottoposti all’obbligo vaccinale per evitare la diffusione del contagio e per ridurre la curva epidemiologica (obbligo da ritenersi inidoneo ab initio a raggiungere lo scopo prefisso dalla legge emergenziale), anziché all’obbligo, ben più attendibile, di rilevazione di SARS-CoV-2 attraverso test molecolare o test antigenico ogni 72 ore nel primo caso ed ogni 48 nel secondo.
Le norme di legge eccepite di illegittimità sopra riassunte venivano ricondotte, a seconda dei casi, a possibili violazioni in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, secondo comma, Cost., in quanto norme lesive della dignità della persona, giusta che, per un periodo temporalmente rilevante, “esse hanno privato gli operatori sanitari, che non abbiano voluto vaccinarsi, di ogni forma di sostentamento per far fronte ai bisogni primari della vita loro e dei loro familiari”.
Si aggiunga che, a fronte di una condotta non integrante illecito né disciplinare né penale, e in rapporto ad una fattispecie introdotta in una fase emergenziale e in un contesto del tutto eccezionale, dette norme (cfr. in specie l’art. 4, comma 5 DL 44/21), sempre secondo i Giudici remittenti, hanno negato agli operatori sanitari non vaccinati la corresponsione di una indennità, quale è l’assegno alimentare, generalmente riconosciuta dall’ordinamento per sopperire alle esigenze del lavoratore sospeso anche laddove quest’ultimo sia sospeso perché coinvolto in procedimenti penali e disciplinari per fatti di oggettiva gravità, con ciò generando un’irragionevole disparità di trattamento e una sanzione sproporzionata e sbilanciata. E finendo per contrastare altresì con l’art. 32, secondo comma, Cost., che, anche per i trattamenti sanitari obbligatori, impone alla legge di non violare «i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Incomprensibile e ingiusto poi anche l’assunto normativo per cui l’obbligo di cosiddetto repêchage del lavoratore (adibirlo cioè a mansioni diverse che non comportino contatti con il pubblico) dovesse sussistere soltanto “a favore dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale o per i quali la vaccinazione è stata differita”, e non anche a favore di coloro che avessero volontariamente scelto di non vaccinarsi. Questa palese discriminazione è apparsa ai Giudici remittenti lesiva del principio di eguaglianza, oltre che del diritto al lavoro (artt. 3 e 35 Cost.) di coloro che avevano deciso di non vaccinarsi, essendo ben praticabili soluzioni alternative, quali, ad esempio, il controllo tramite tampone di rilevazione del virus o l’assegnazione a mansioni diverse.
Altro motivo di violazione, secondo i vari Giudici di merito, quello in punto artt. 3, 4, 32 e 35 Cost. dove la norma censurata del DL 44/21 imponeva al lavoratore un obbligo inutile (in quanto non efficace sia nella prevenzione della malattia che nel contenimento del contagio) e gravemente pregiudizievole del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica ex art. 32 Cost., nonché del suo diritto al lavoro ex artt. 4 e 35 Cost., prevedendo la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale.
Infine, secondo i remittenti, essendo notorio e provato il fatto che la persona che si è sottoposta al ciclo vaccinale può comunque contrarre il virus e quindi contagiare gli altri e che la vaccinazione di massa non ha affatto ridotto la curva epidemiologica dei contagi (si rammentano gli stessi dati forniti da tempo sul sito del Ministero della salute e citati dal Giudice patavino in particolare, in ordine al rapporto tra l’andamento della campagna vaccinale ed il numero in aumento di contagi e all’inefficacia assodata dei farmaci vaccinali nel prevenire il contagio), l’imposizione dell’obbligo vaccinale non sarebbe conforme all’art. 32 Cost., valutato in relazione al contemperamento o bilanciamento fra il diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di autodeterminazione nella libertà di cura) e l’interesse della collettività: diritto soggettivo individuale, il primo, che dovrebbe invece prevalere sul semplice interesse legittimo collettivo; oltre che incompatibile con l’art. 52 CDFUE (la Carta dei diritti fondamentali della UE) dal momento che il vaccino è misura inefficiente ed inefficace a perseguire il fine normativo.
Di qui il dubbio rimesso alla Corte delle leggi sulla ragionevolezza dell’imposizione dell’obbligo vaccinale, misura ritenuta “non idonea al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.
Fatte queste premesse, passiamo ora ad una parziale lettura critica della decisione e delle motivazioni addotte dalla Corte in questa decisione, lettura critica che sarà quivi incentrata solo sulla confutazione delle cd. “evidenze scientifiche” che farebbero ritenere non irragionevole e così costituzionalmente legittimo l’introduzione di questo specifico obbligo vaccinale, lasciando ad altra sede l’analisi dei profili più prettamente giuridici che inficiano a monte la validità delle decisioni della Corte medesima.
Il ragionamento errato della Corte parte dalle seguenti considerazioni:
“Il d.l. n. 44 del 2021 … era volto … – essa enuncia in principio – a disciplinare in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette al contenimento dell’epidemia e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica, con riferimento soprattutto alle categorie più fragili, anche alla luce dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche acquisite”.
E la “relazione (accompagnatoria, n.d.r.) al D.L. n 44 del 2021”, rammenta sempre la Corte, affermava che «in considerazione dei dati sulla diffusione del SARS-CoV-2 sul territorio nazionale, in termini di numero di casi e dell’indice di trasmissibilità dell’infezione, nonché in relazione al tasso di occupazione delle strutture ospedaliere e dei reparti di terapia intensiva, è ormai evidente come la vaccinazione costituisca un’arma imprescindibile nella lotta alla pandemia, configurandosi come un’irrinunciabile opportunità di protezione individuale e collettiva».
L’approccio fideistico e a-scientifico del ragionamento della Corte, come si noterà, emerge fin dai primi passi della sentenza.
In prosieguo detta relazione aggiungeva che «l’introduzione di un siffatto obbligo per le categorie professionali considerate nasce dalla constatazione che la vaccinazione degli operatori sanitari, unitamente alle altre misure di protezione collettiva e individuale per la prevenzione della trasmissione degli agenti infettivi nelle strutture sanitarie e negli studi professionali, ha valenza multipla: consente di salvaguardare l’operatore rispetto al rischio infettivo professionale, contribuisce a proteggere i pazienti dal contagio in ambiente assistenziale e serve a difendere l’operatività dei servizi sanitari, garantendo la qualità delle prestazioni erogate, e contribuisce a perseguire gli obiettivi di sanità pubblica».
Con l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conclude la sua premessa la Corte, «in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2» è stato introdotto l’obbligo vaccinale «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza».
Già da queste premesse emerge dunque come il ragionamento giuridico (o a-giuridico) effettuato dalla Corte risulti evidentemente errato e falsato.
Essa, infatti, fa ricorso ad un affidamento generico, preventivo, pregiudiziale e fideistico in asserite e improvate verità scientifiche che sono ed erano assolutamente inesistenti ab origine dell’inizio della campagna vaccinale: dimenticando con ciò di decidere, e questo è l’appunto secondo noi immediatamente più grave, secondo il Diritto.
Questa impostazione delle motivazioni snatura profondamente la propria missione di “Giudice delle Leggi” supremo garante dei diritti costituzionali, natura che piega invece pericolosamente di fronte ad una “scienza” che per sua natura (a propria volta) non ha invece nulla (oltre che di definitivo e immutabile) a che spartire con il concetto di diritti naturali e inviolabili dell’essere umano “riconosciuti” dalla Carta costituzionale giusta il sacro dettato del suo art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”) .
Il che vizia in nuce l’attendibilità, la legittimità, la ragionevolezza e così la “tenuta” dell’intero provvedimento.
Volendo analizzare specificatamente le motivazioni scientifiche sviluppate dalla Corte, va innanzitutto rilevato che era fatto assolutamente “notorio” (cioè non suscettibile di prova contraria, in quanto pacificamente ammesso e così non contestabile, seppur l’Avvocatura di Stato lo abbia contestato alle parti ricorrenti e a quelle intervenute, mentre l’onere della prova contraria doveva gravare sull’Avvocatura medesima, e non è stato dato) che, fin dall’immissione condizionata in commercio di questi farmaci sperimentali autorizzata dalla Commissione europea, previo parere EMA, e poi recepita da AIFA e Ministero della Salute per l’Italia, contrariamente alle rassicurazioni iniziali (e rimaniamo qui su un piano prettamente nazionale) dei massimi organi dello Stato, della politica e della sanità, e di parte della cd. “scienza” (in realtà soprattutto quella dei preconfezionati salotti televisivi e della stampa allineata) e della quasi totalità degli organi di informazione (rammentiamo che le Case farmaceutiche non hanno mai fornito garanzia alcuna al riguardo nemmeno sulle note informative, i cd. bugiardini), i farmaci detti “vaccini” introdotti in commercio per la cura preventiva contro il Covid- 19 non avevano e non hanno alcun effetto né nel prevenire la malattia né nel contenere la diffusione del virus.
Fatto notorio assolutamente essenziale per non consentire di fare ritenere operante il cd. “principio solidaristico” elaborato dalla giurisprudenza costituzionale (che successivamente la Corte andrà a richiamare); principio che si può banalmente riassumere nell’abusata litania mediatica, tanto abusata quanto clamorosamente falsificata (giusta la totale carenza di evidenze scientifiche al riguardo), del “mi vaccino così proteggo gli altri”, “vaccino anche i neonati, anche se sono a rischio zero, così proteggo i nonni”, “non ti vaccini, ti ammali, muori e fai morire” (di draghiana memoria), “vaccino le donne incinte (pur in assenza assoluta di studi al riguardo ndr) per proteggere il nascituro” ecc…).
Partendo da queste premesse errate, sia sulla correttezza e sulla finalità della ratio legis sia sulla ragionevolezza che sul contenuto delle norme citate (in quanto le medesime disattendono clamorosamente lo stesso contenuto dei provvedimenti di immissione in commercio del dicembre 2020/gennaio 2021 e le stesse note informative allegate a detti farmaci dalle case farmaceutiche produttrici), la Corte richiama poi invece correttamente la propria costante giurisprudenza e così la riassume: “l’imposizione di un trattamento sanitario, e di un obbligo vaccinale, in particolare, può ritenersi compatibile con l’art. 32 Cost., al ricorrere di tre presupposti:
a) “se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale” (cfr. sentenza n. 307 del 1990);
b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili” (ivi);
c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato, cfr. sentenza 307 cit. e v. legge n. 210/1992 sull’indennizzo del danno da vaccinazione» (sentenze n. 258 del 1994 e n. 5 del 2018).
Diciamo subito che, seppur non ritenendo ammissibile e lecito un “bilanciamento” tra un diritto soggettivo fondamentale e un interesse legittimo collettivo, i tre presupposti indicati dalla giurisprudenza costituzionale non sono alternativi ma devono essere concorrenti.
E già il primo di essi, che qui viene alla luce nella sentenza n. 15/2023, e cioè che, nella specie, il trattamento imposto con l’obbligo vaccinale sia diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è stato assoggettato e quello degli altri consociati, non ricorre giacché i vaccini Covid-19 non sono certamente idonei a raggiungere lo scopo di preservare la salute della collettività, ben potendo il vaccinato contrarre il virus, anche in forma grave e/o letale, e quindi contagiare gli altri.
Oltre a ciò, il presupposto che la Corte ritiene ricorrente è contraddetto dalla realtà fattuale in quanto l’inefficacia dei vaccini ai fini della “prevenzione della diffusione” del virus era stata da subito dichiarata nelle note informative (cd. istruzioni o bugiardini) dei produttori di questi farmaci che escludevano chiaramente (non avendo fatto nessuno studio al riguardo) l’efficacia dei medesimi per finalità di prevenzione della diffusione del virus.
La Corte viola dunque la regola non superabile della “appropriatezza prescrittiva”, cioè la regola della corrispondenza tra indicazione terapeutica e impiego conforme del farmaco, trincerandosi nel (banale quanto errato) richiamo alle indicazioni del Ministero della Salute (e quindi alle indicazioni dei tecnocrati ministeriali), assolutamente estranee e addirittura contrarie alle specifiche indicazioni terapeutiche al riguardo dei preparati, come approvate da EMA a livello europeo e poi da AIFA a livello nazionale.
Valutazione soggettiva e arbitraria, quella della Corte, e quindi errata sia sotto il profilo giuridico che scientifico.
Si aggiunga che sin dall’inizio, come doveva essere noto alla Corte e come in ogni caso le è stato rappresentato e dimostrato da parti ricorrenti e parti intervenute nel procedimento, la prevenzione della sintomatologia moderata-grave è stata l’obiettivo sostanziale degli studi condotti con i primi trials clinici randomizzati multicentrici, i cui esiti sono stati pubblicati sulle più importanti riviste mondiali, quali The Lancet, con riguardo al vaccino Oxford, AstraZeneca (Voysey et al, 2020) e New England Journal of Medicine, quanto ai vaccini BioNTech-Pfizer e Moderna (Polack et al, 2020; Baden et al, 2020).
Nei trials è stata solo valutata l’efficacia vaccinale nella prevenzione e/o riduzione dei sintomi della malattia, confermata da diagnosi virologica con PCR/NAAT (test di reazione a catena della polimerasi/test di amplificazione degli acidi nucleici) e, quindi, gli effetti della vaccinazione sui casi di malattia conclamata rilevanti ai fini della salute del singolo.
Su questo punto anche alcuni interventi “amici curiae” di diverse associazioni nazionali hanno ampiamente argomentato, anche attraverso la produzione ai Giudici romani degli studi scientifici nazionali e internazionali sul tema dell’inefficacia; ma la Consulta non li ha tenuti in alcuna considerazione.
Alla luce di quanto esposto sul piano delle oggettive conoscenze o “evidenze scientifiche”, la Corte avrebbe invece dovuto affermare, a maggior ragione, proprio quale Garante dei diritti inviolabili dell’essere umano uti singulo, la supremazia del diritto soggettivo individuale alle scelte inerenti alla propria salute e alla tutela della propria integrità psicofisica sul semplice interesse legittimo della cd. collettività che abbiamo visto non ricorrere neanche, nella fattispecie esaminata (l’”interesse” è comunque di rango inferiore al “diritto”).
Continua ancora la Corte mettendo, anche qui erroneamente, sullo stesso piano il contemperamento del diritto alla salute del singolo (comprensivo del profilo negativo di non essere assoggettato a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati) con l’interesse della collettività, evidenziando come esso rappresenterebbe “una specifica concretizzazione dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nella quale si manifesta «la base della convivenza sociale»”.
Dimentica qui la Corte che tutti i diritti fondamentali, compreso quello alla salute, trovano la propria massima espressione nel “diritto supremo”, originario e indisponibile, del rispetto della dignità della persona umana (art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, da leggersi anche in combinato disposto con l’art. 3: “Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica; cfr. anche art. 3 e 32 comma 2 Cost. sul diritto alla dignità sociale e sul limite del rispetto della persona umana, inviolabile da trattamenti sanitari obbligatori) che non può essere oggetto di alcun bilanciamento né di alcuna compressione, nemmeno a favore degli invocati “doveri di solidarietà sociale”.
di Andrea Montanari (avvocato, responsabile Dipartimento Legale e coordinatore Comitato Giuridico scientifico di SIM)
Fonte: SIM