Gli affari della Germania in Cina:
così consuma gas russo (e inquina)
aggirando sostenibilità e sanzioni
Secondo un’inchiesta del New York Times, grandi aziende come la Basf producono sempre più spesso in Cina per evitare le penalizzazioni imposte dalle normative ambientaliste — e dove il gas (importato dalla Russia) costa meno.
Così la dipendenza da Pechino, per alcuni settori cruciali, continua ad aumentare
Il reportage del New York Times mette a fuoco due casi emblematici, due nomi rappresentativi della grande industria germanica: il gruppo chimico Basf e la casa automobilistica Volkswagen.
Il reportage del New York Times mette a fuoco due casi emblematici, due nomi rappresentativi della grande industria germanica:
il gruppo chimico Basf e la casa automobilistica Volkswagen.
Gli affari della Germania in Cina
Basf
La Basf ha già 30 stabilimenti chimici in Cina, e lungi dal ridurre questa presenza massiccia ora ha deciso di rafforzarla.
Ha in costruzione un nuovo impianto, per un investimento da 10 miliardi di euro: una fabbrica così grande da rivaleggiare per le dimensioni con la principale sede produttiva in Germania, quella di Ludwigshafen.
Il chief executive della Basf, Martin Brudemueller, ha spiegato la logica della sua espansione nella Repubblica Popolare quando ha presentato i risultati aziendali alla stampa e ha dichiarato:
«Senza gli affari che facciamo in Cina non potremmo finanziare la nostra ristrutturazione in Europa.
Non c’è un solo investimento europeo che sia redditizio in questo momento».
Il numero uno della Basf è stato molto chiaro: l’industria chimica in Europa è talmente penalizzata dalle normative ambientaliste e dagli alti costi, che gli impianti in Cina sono fonti di profitto essenziali per tenere a galla l’azienda.
Poiché una materia prima essenziale dell’industria chimica è il gas, conviene andare a consumarlo in Cina dove costa meno perché Putin lo vende fuori sanzioni e a prezzi scontatissimi.
Sviluppiamo questa logica fino in fondo, mettendo a nudo tutte le implicazioni.
In Germania c’è una coalizione di governo con i Verdi che impone una marcia a tappe forzate verso un’economia de-carbonizzata — incluse scelte controsenso come l’abbandono del nucleare, che non emette CO2 — e la Basf come altre aziende viene sovraccaricata di costi per obbedire a queste direttive.
Di conseguenza va a consumare energie fossili in Cina… per finanziare la sua riconversione verde in Germania. In questo modo non solo la dipendenza verso Pechino aumenta, ma l’ambientalismo è una pura operazione di facciata, che rassicura gli elettori verdi senza spostare nulla dal punto di vista del cambiamento climatico.
Gli affari della Germania in Cina
Volkswagen
Il caso della Volkswagen è analogo.
La casa automobilistica ha più di 40 fabbriche in Cina, che producono soprattutto per il mercato interno.
Anche per Volkswagen gli alti costi di produzione in Europa, resi ancor più gravosi dagli obblighi di transizione veloce verso l’auto elettrica, rendono essenziali i profitti realizzati sul mercato cinese.
Il problema per la Volkswagen però è che il suo successo sul mercato interno della Repubblica Popolare sembra avere gli anni contati.
Le marche tedesche hanno goduto di un’ottima immagine presso gli automobilisti cinesi, fino a quando il mercato è stato dominato dai modelli a combustione.
Con il passaggio all’auto elettrica una quota crescente di consumatori cinesi si rivolge alle marche domestiche, che hanno una lunghezza di vantaggio sulle europee (solo la Tesla è riuscita a difendere abbastanza bene la sua posizione sul mercato cinese).
Solo il 2,4% delle auto elettriche immatricolate in Cina sono delle Volkswagen; Mercedes e Bmw non arrivano neppure all’un per cento.
E così, finché dura, la Volkswagen deve massimizzare i profitti che fa in Cina sulle vendite di auto a benzina e diesel, per avere le risorse da investire nella transizione elettrica in Europa.
Ma la minaccia si sta già profilando sul Vecchio continente, dove aumenta la penetrazione delle auto elettriche «made in China».
Analisi del Kiel Institute
La dipendenza della Germania dalla Cina è al centro dell’analisi del Kiel Institute che s’interroga se sia realistico lo scenario di un «decoupling», dis-accoppiamento o divorzio, anche solo parziale.
I settori dove l’industria tedesca non può fare a meno di forniture cinesi non sono tanti, però sono cruciali.
Per esempio nei laptop computer la Germania compra per l’80% prodotti made in China, nei telefonini il 68%, nei LED il 61%, in molti altri componenti elettronici indispensabili per le tecnologie digitali (dalle sim-card ai circuiti integrati) la dipendenza è ben oltre il 50%.
Poi c’è tutto il versante delle terre rare e dei minerali strategici per le batterie elettriche o i pannelli solari, anche questo un dominio della Repubblica Popolare.
Nel settore biomedico, le importazioni dalla Cina sfiorano punte del 90% in certe categorie di prodotti come i farmaci analgesici.
In totale il Kiel Institute elenca 221 prodotti la cui provenienza è essenzialmente «Cina più Taiwan».
L’aggiunta di Taiwan si spiega così: uno scenario di divorzio economico deve includere la possibilità di una guerra su Taiwan che farebbe scattare sanzioni economiche europee contro la Cina, ma al tempo stesso chiuderebbe le vie dell’export taiwanese verso di noi. In quei 221 prodotti cruciali, la Germania dipende da «Cina più Taiwan» per l’80% del suo consumo.
FONTE: corriere.it