L’OMS chiede di bandire dai social la “disinformazione sanitaria”
Una nuova review curata dall’OMS su infodemia e disinformazione sanitaria, dal titolo Infodemics and health misinformation: a systematic review of reviews, sostiene che:
il 51% dei post che troviamo sui social media conterrebbe fake news sui vaccini; il 28,8% dei post associati alla Covid-19 e alle cure avrebbe diffuso altrettante informazioni false, mentre si sale fino al 60% nei post relativi alle pandemie.
Tra i video di YouTube sulle malattie infettive emergenti è stato riscontrato che il 20-30% conterebbe informazioni imprecise, fuorvianti o ingannevoli.
Secondo gli autori, i social media avrebbero diffuso informazioni sanitarie di scarsa qualità durante pandemie, crisi umanitarie ed emergenze sanitarie a un ritmo crescente:
“Tale diffusione di prove inaffidabili su argomenti sanitari amplifica l’esitazione sui vaccini e promuove trattamenti non provati”.
Secondo gli autori della review, infatti, gli effetti dell’infodemia e della disinformazione sanitaria online possono essere contrastati:
“sviluppando azioni e politiche legali, creando e promuovendo campagne di sensibilizzazione, migliorando i contenuti relativi alla salute nei mass media e aumentando l’alfabetizzazione digitale e sanitaria delle persone”.
“Twitter, Facebook, YouTube e Instagram sono fondamentali per diffondere la rapida e ampia diffusione delle informazioni“, spiegano gli autori della ricerca.
Le ripercussioni della disinformazione sui social media includono effetti negativi come:
“un aumento dell’interpretazione errata delle conoscenze scientifiche, la polarizzazione delle opinioni, l’escalation di paura e panico o un ridotto accesso all’assistenza sanitaria”.
La maggiore diffusione della disinformazione sanitaria in un’emergenza sanitaria è accelerata dal facile accesso ai contenuti online, in particolare sugli smartphone:
“Durante crisi come focolai di malattie infettive e disastri, la sovrapproduzione di dati da più fonti, la qualità delle informazioni e la velocità con cui le nuove informazioni vengono diffuse creano impatti sociali e sanitari“.
La ricerca contiene anche otto consigli su un uso migliore dei social, in modo che questi, una volta corretti nelle loro “devianze” possano diventare un mezzo non soltanto per diffondere la corretta narrazione in campo sanitario, ma anche “tracciare i focolai di malattie”.
Ci troviamo di fronte a un mix di controllo e sorveglianza tecnologica che finisce per abbracciare l’invito venuto dal Forum di Davos il 23 maggio scorso di “ricalibrare la libertà di pensiero”.
Partendo dalle analisi contenute nella review, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità rilancia la richiesta di adottare “nuove politiche per l’informazione sui social media”.
Ossia potenziare gli algoritmi volti a identificare i contenuti ritenuti dannosi e censurarli, in modo che i social possano diventare un canale per diffondere contenuti sanitari in linea con la narrazione ufficiale, superando persino “i tradizionali canali di comunicazione” e “per promuovere la consapevolezza per la vaccinazione”.
Un controllo di qualità a senso unico, quindi, non diretto anche verso le innumerevoli fake news diffuse dai media mainstream o dai governi.
Il rischio è chiaramente sempre lo stesso che risiede in ogni progetto di censura della fake news:
dietro il velo dei comunicati in difesa della sicurezza delle informazioni, rischia di nascondersi il disegno di creare una informazione certificata che può provenire solo dall’alto e legittimare la censura dei contenuti che divergono rispetto alla narrazione mainstream.
Si vorrebbe infatti che le persone facessero esclusivo riferimento ai media di massa, diffidando dalle notizie alternative, finendo così per bersi passivamente tutto ciò che radio, TV e giornali diramano.
Si rischia – o si desidera – così che il giornalismo (scientifico e non) diventi sempre più dogmatico, con il risultato possibile non solo di arginare qualunque rischio di dissenso (come auspicato in un articolo pubblicato dal sito del World Economic Forum il 10 agosto scorso, intitolato The solution to online abuse? AI plus human intelligence), ma anche di censurare contenuti che si riveleranno a posteriori esatti ed assecondare i quelli che poi si riveleranno fallaci.
Infatti, come ormai ben sappiamo, sotto l’etichetta di “disinformazione” in campo sanitario ci finiscono anche le ricerche di scienziati o autori indipendenti che hanno tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica su temi scottanti come le cure domiciliari anti-Covid o i sieri sperimentali e che stanno avendo sempre maggior riscontro in campo scientifico negli ultimi mesi.
Si pensi alla revisione pubblicata su The Lancet Infectious Diseases sulla terapia anti-Covid a base di antinfiammatori, secondo cui il trattamento basato sui FANS:
“ha impedito quasi completamente la necessità di ospedalizzazione a causa di una progressione verso una malattia più grave rispetto ai pazienti del gruppo di controllo”.
Per due anni i media italiani hanno screditato le cure domiciliari precoci e criminalizzato i medici che sostenevano fossero fondamentali trincerandosi dietro l’accusa di diffondere fake news, sconsigliando di assumere farmaci antinfiammatori.
Ora che la verità viene a galla, si cerca orwellianamente di falsificare il passato o di ignorarla.
L’obiettivo dietro le rivendicazioni, gli editoriali e gli studi pubblicati da strutture e organizzazioni come l’OMS o Davos è imporre una visione della realtà che scalzi la realtà stessa:
ciò che viene diramato dai mass media, anche qualora fosse smentito dai fatti, deve essere accolto acriticamente dai cittadini, senza essere messo in discussione né sottoposto al vaglio della ragione.
Non c’è spazio per l’ermeneutica del dubbio, questo anzi viene additato come il segnale di uno squilibrio paranoico e la coscienza critica – persino se supportata da evidenze cliniche o scientifiche – diventa sinonimo di “complottismo”.
di Enrica Perucchietti
Fonte: L’Indipendente