Le vere cause della disaffezione dei medici al lavoro pubblico
Un problema che nasce da un lato dalla diretta esperienza di chi già opera da tempo nelle strutture del SSN e dall’altro dalla certezza dei neo laureati che il lavoro nelle nostre strutture pubbliche, laddove iniziasse, non sarebbe appagante; e per tali motivi le giovani leve cercano all’estero prospettive di carriera che siano in grado di remunerare professionalmente ed economicamente gli sforzi fatti nel lungo e oneroso percorso di studio.
La recente indagine del sindacato ANAAO sulla disaffezione degli operatori sanitari medici e non medici nei confronti del proprio lavoro e sul loro desiderio di abbandonare il SSN fa il paio con il dato altrettanto allarmante della fuga dei giovani medici dal nostro paese di cui ha parlato il presidente della FNOMCEO Filippo Anelli.
Un problema dunque che nasce da un lato dalla diretta esperienza di chi già opera da tempo nelle strutture del SSN e dall’altro dalla certezza dei neo laureati che il lavoro nelle nostre strutture pubbliche, laddove iniziasse, non sarebbe appagante.
Per tali motivi le giovani leve cercano all’estero prospettive di carriera che siano in grado di remunerare professionalmente ed economicamente gli sforzi fatti nel lungo e oneroso percorso di studio.
Dunque un processo di fuga intergenerazionale che dimostra come sia definitivamente interrotto il filo che legava i giovani medici con i medici anziani.
Una relazione che era trasmissione di saperi e soprattutto addestramento nell’ acquisire la capacità di integrare tra loro i dati clinici, discernendo quelli essenziali da quelli di scarso significato.
Un lavoro epistemico indispensabile per pervenire a formulare il sospetto diagnostico con una certa dose di certezza.
Un processo lungo di apprendistato che rendeva straordinariamente attrattivo il lavoro nelle corsie specie se a dirigerle si trovava un “maestro”.
Sono questi i motivi per cui non sarò mai sufficientemente grato ai dottori Cicala, Venanzi, Colombini del Santo Spirito di Roma che mi hanno insegnato con il ragionamento clinico a inserire criticamente i dati clinici visibili in quel quadro generale di corrispondenza alle “forme” cliniche nosologicamente definite dando senso e significato a quanto mostrato dal paziente
Perché dunque si fugge dagli ospedali e nessuno desidera dedicarsi a tale attività?
Una domanda semplice a cui tuttavia nessuno vuole fornire risposte chiare e dirette a partire dallo stesso Presidente Anelli.
Il primo motivo a mio giudizio è la perdita di Status del medico del nostro paese.
Una perdita di status sia nei confronti della componente manageriale e sia nei confronti dei pazienti.
L’aziendalizzazione della sanità è stata un fallimento.
Nata per portare i conti delle ASL in equilibrio non è riuscita ad impedire il fallimento delle metà delle regioni italiane costrette, poi per ripianare i debiti, a lunghi e dolorosi piani di rientro.
I direttori generali, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono minimamente riusciti a coniugare efficienza economica e implementazione della qualità.
I conti delle aziende sono restati quasi sempre paurosamente in rosso e i servizi sono progressivamente divenuti più poveri e meno distribuiti.
In compenso le aziende hanno adottato un modello gestionale top down che per governare l’incertezza ha adottato un metodo governamentale asseverativo e non scevro di autoritarismo
I medici sono diventati operati specializzati in processi imposti dall’alto in cui non hanno alcun potere decisionale.
Un quadro che crea frustrazione, disaffezione e giusta voglia di fuggire.
A questo si aggiunge poi il problema degli eccessivi carichi di lavoro e la trasformazione del lavoro di equipe che ho conosciuto al Santo Spirito in un lavoro a cottimo in cui si misurano ore lavorate e prestazioni aldilà di ogni valutazione qualitativa del servizio svolto
Il secondo aspetto è il rapporto con i pazienti diventato un sempre più conflittuale.
Anche qui per una doppia componente: il razionamento implicito delle prestazioni indotte dai tagli delle strutture con conseguente esasperazione dei pazienti che esprimono bisogni sanitari che non riescono a soddisfare e che, frustrati dalle lunghe attese, se la prendono con gli operatori.
Dall’altro il mercato del contenzioso medico legale portato avanti con spregiudicatezza da studi di avvocati specialisti del settore che spingono i pazienti ad adire vie legali anche per futili motivi e in mancanza di norme che puniscano il contenzioso immotivato
Il secondo motivo di disaffezione è di natura economica.
Qualche bontempone perde ancora tempo ad accusare la legge Bindi di avere privatizzato la sanità o di avere penalizzato i medici.
Una vera bestialità su cui sono già intervenuto.
Voglio ancora una volta ricordare che con il CCNL che derivò da quella legge i medici e gli ex assistenti furono sanati uscendo da una situazione di vera mortificazione professionale e che gli aumenti di salario furono ricompresi tra il 30 e il 50 per cento!
Un aumento unico nella storia dei medici dipendenti che mai è stato replicato essendo stati quelli successivi nell’ ordine di pochi punti percentuali.
Se si fosse continuato ad investire sulla risorsa umana come si fece nel 2000 oggi i medici non cercherebbero fortuna all’estero e resterebbero nel paese dove hanno studiato.
Sono questi i temi di cui pochi parlano perché la loro risoluzione passa attraverso una profonda riforma delle strutture sanitarie che scontenterebbe in primis tutti i “bocconiani” che governano le strutture sanitarie (organi di rappresentanza compresi) e non solo.
Una nuova aristocrazia che è fortemente legata alla politica in quanto scelti in modo fiduciario dagli assessori e dai presidenti di regione.
Un circolo di fiducia da parte dei decisori politici e attesa generazione di consenso nel corpo sociale a cui i politici di professione, per vocazione e necessità, riescono a rinunciare solo a fatica.
Ridare dignità al lavoro medico dunque significa compiere scelte politiche che mettano al primo posto la partecipazione dei professionisti e dei cittadini alla programmazione e alla valutazione dei servizi.
Significa rompere con il potere monocratico del direttore generale istituendo un organo di indirizzo dell’azienda di tipo collegiale aperto ai contributi dei diversi soggetti portatori di legittimi interessi
Significa farla finita con il centralismo regionale dando potere effettivo ai comuni singoli o associati che conoscono bene le necessità dei cittadini e dei loro territori e che oggi sono muti.
Significa dare un ruolo al Ministero della salute, oggi nel rango di regolatore di una pura e inutilizzabile “medicina di carta” e all’Agenas per creare delle reti cliniche che rendano uniforme i servizi nei diversi ambiti regionali superando nei fatti e non a parole le mostruose differenze oggi esistenti tra nord e sud del paese.
Un processo che implica anche sottrarre al ministero dell’economia la gestione delle risorse finanziarie impedendo che i risparmi sulla sanità servano per fare cassa.
In conclusione, il dibattito in corso è viziato da una serie di omissioni e di non detti che sono duri da pronunciare perché romperebbero equilibri col tempo costruiti.
Un silenzio che finora ha fatto comodo a molti ma che oggi non è più consentito per l’evidente rischio di collasso dell’intero sistema.
Roberto Polillo
Fonte: quotidianosanità