La strategia dell’industria del food sui rischi dei cibi ultra processati: negare
Sono sempre più numerosi e convincenti gli studi che collegano il consumo di cibi ultra processati a gravi problemi di salute come obesità, diabete e tumori.
Eppure l’industria alimentare continua a negare e minimizzare questi rischi, attaccando la credibilità dei ricercatori e facendo pressioni sui governi per evitare qualsiasi forma di regolamentazione.
Un’inchiesta del Financial Times svela le strategie e i conflitti d’interesse di Big Food in quella che si sta delineando come una delle più cruciali battaglie per la salute pubblica del nostro tempo.
Il paradigma “rivoluzionario” dei cibi ultra processati
Tutto inizia nel 2009, quando il nutrizionista brasiliano Carlos Monteiro conia il termine “cibi ultra processati” per descrivere alimenti che hanno subito molteplici processi industriali, come l’aggiunta di conservanti, aromi o la rimozione e l’aggiunta di nutrienti.
È stata una svolta concettuale che ha messo le basi per un nuovo filone di ricerca.
Il sistema di classificazione degli alimenti “Nova” ideato da Monteiro, infatti, non valuta solo il contenuto nutrizionale dei cibi, ma anche i processi a cui sono sottoposti prima di arrivare nel piatto.
Negli anni successivi, decine di studi usano questo approccio per indagare i legami tra consumo di ultra processati e malattie croniche non trasmissibili.
I risultati?
Sono allarmanti: queste formule industriali, che spaziano dalle merendine ai cereali per la colazione ai piatti pronti, incoraggiano l’iperconsumo ma possono lasciare il consumatore denutrito ma obeso.
Un mix di carboidrati e grassi che innesca il sistema di ricompensa del cervello, spingendo a mangiare di più per sostenere il piacere dato da questi prodotti.
Negare, negare, negare.
All’occorrenza contrattaccare.
Dubbi, conflitti d’interesse e lobby
Mentre la scienza accumula prove, l’industria alimentare (dominata da colossi globali come Nestlé, PepsiCo, Mars e Kraft Heinz) inizia a vedere le accuse ai cibi ultra processati come una minaccia al proprio modello di business.
Un modello basato proprio su questi prodotti ad alto margine di profitto.
La reazione?
Un’intensa campagna contro ogni ipotesi di regolamentazione, che ricalca per molti versi le tattiche adottate in passato dall’industria del tabacco e degli alcolici.
L’analisi del Financial Times sui dati del lobbismo USA (la culla del cibo ultra processato, una vera e propria palestra di sperimentazione) è illuminante.
Rivela che nel 2023 le aziende legate a cibo e bevande hanno speso 106 milioni di dollari in attività di lobbying.
È quasi il doppio rispetto a tabacco e alcol messi insieme.
Con un aumento del 21% rispetto al 2020, trainato soprattutto dalle pressioni sui temi della trasformazione alimentare e degli zuccheri.
Ma Big Food non si limita a negare o a spalancare i cordoni della borsa per influenzare i decisori politici.
Come già visto con le sigarette, cerca anche di seminare dubbi sulla validità delle ricerche di scienziati come Monteiro.
Barry Smith, direttore dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Londra e consulente sulle esperienze multisensoriali del cibo e delle bevande:
“La strategia che vedo usare dall’industria alimentare è negare.
Negare, denunciare e ritardare”, .
Con il peso delle prove che continua ad accumularsi, gli esperti di salute pubblica ritengono che la vera domanda non sia più se, ma come e quanto queste conoscenze si tradurranno in norme.
Cibi ultra processati
La longa manus di Big Food nella ricerca e nelle istituzioni
Per capire la portata di questa battaglia, bisogna procedere con pazienza per ricostruisce la pervasiva rete di legami e finanziamenti che da decenni lega l’industria alimentare ai principali dipartimenti di scienze dell’alimentazione e della nutrizione del mondo.
Connessioni che aiutano Big Food a “fabbricare dubbi”, finanziando analisi che scagionano le aziende.
O suggeriscono che le accuse contro di loro non sono provate, o lanciano semplicemente fumo negli occhi.
Un’analisi del 2018 ha scoperto che gli autori degli studi critici verso il sistema Nova di Monteiro avevano quasi tutti legami con l’industria degli ultra processati.
Anche organismi di regolamentazione e comitati consultivi scientifici sono spesso intrecciati a doppio filo con queste multinazionali.
I ricercatori che studiano la nutrizione umana presso l’Università di Reading, nel Regno Unito, ad esempio, hanno ricevuto 262.832 sterline in finanziamenti per la ricerca dalla multinazionale alimentare Mars tra il 2018 e il 2023, secondo una recente richiesta di accesso alle informazioni.
PepsiCo ha fornito 61.756 sterline ai ricercatori nello stesso periodo.
Financial Times
Non si illuda Big Food
Negare, attaccare e rimandare può funzionare solo fino a un certo punto. Contro le barricate legali e lobbistiche, la comunità scientifica internazionale si sta compattando nel denunciare l’impatto dei cibi ultra processati nelle spese sanitarie globali.
Perché se è vero che i progressi tecnologici hanno reso il cibo più accessibile e conveniente, è altrettanto vero che il conto in termini di malattie croniche evitabili la situazione sta diventando insostenibile.
Da un lato la scienza, che con pazienza e metodo accumula dati e allarga il consenso sulla necessità di agire.
Dall’altro le multinazionali, con le loro armi collaudate di lobbying, porte girevoli, influenze e cause legali.
Al centro, la posta in gioco: il futuro della salute di miliardi di persone e la sostenibilità stessa dei sistemi sanitari.
Una sfida che, come il cambiamento climatico, richiederà visione, coraggio e determinazione.
Ma anche la consapevolezza che ogni ritardo ha un prezzo in vite umane.
E che non possiamo più permetterci di pagarlo.
FONTE: FuturoProssimo
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