Il mondo «non occidentale» alza il livello della sfida all’egemonia economica e finanziaria degli Stati Uniti. Dal primo gennaio 2024, sei Paesi, cioè Iran, Arabia Saudita, Egitto, Argentina, Emirati Arabi ed Etiopia, si uniranno al gruppo dei «Brics», vale a dire Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Sarà il primo passaggio di una specie di «big bang» che aspira a cambiare gli equilibri geoeconomici del mondo. Almeno altri 40 Stati hanno già chiesto di entrare nel club, dall’Algeria alla Repubblica democratica del Congo, dall’Indonesia a Cuba, dal Kazakistan al Gabon. Si sta formando, dunque, una coalizione che salda grandi potenze, come Cina, India e Russia, a nazioni africane, asiatiche, sudafricane ancora in via di sviluppo. C’era anche questo messaggio nel vertice di mercoledì 15 novembre fra il leader cinese Xi Jinping e il presidente americano Joe Biden, a San Francisco. «Il mondo – ha detto Xi – è abbastanza vasto per tutti e due. Cina e Stati Uniti sono pienamente capaci di crescere, nonostante le differenze». Dopo l’incontro con Biden e la folta delegazione Usa, Xi Jinping è andato a cena con alcuni dei più importanti imprenditori americani, da Elon Musk ai dirigenti di Exxon Mobil, Apple, Citigroup, Microsoft. Nello stesso tempo Xi Jinping è stato il più convinto sostenitore dell’allargamento dei Brics. Come dire: porte aperte ai capitali occidentali, ma competizione aperta con Washington per il primato planetario.
Nascita dei Brics
La sigla Bric fu coniata nel 2001 da Jim O’ Neill, capo economista della banca d’affari americana Goldman Sachs, per indicare quattro realtà su cui puntare per investimenti ad alto potenziale, visto il loro sviluppo tumultuoso. La previsione di O’Neill, in realtà, non teneva conto che stava iniziando anche un processo politico-diplomatico. I governi di Brasile, Russia, India e Cina avevano già avviato un dialogo che giunse a maturazione con il primo vertice, ospitato nel sud della Russia, a Ekaterimburg, il 16 giugno del 2009. La foto con quei leader oggi appare un po’ sbiadita. Il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, è l’unico rimasto in carica. Alla guida della Cina c’era Hu Jintao, ora c’è Xi Jinping; della Russia, Dmitry Medvedev, adesso Vladimir Putin; dell’India, Manmohan Singh, ora è il momento di Narendra Modi. Nel 2010 i quattro fondatori decisero di aprire al dinamico Sudafrica. E con la «s» di Sudafrica i Bric diventarono Brics.
Lo zampino di Goldman Sachs
O’Neill aveva scritto ai clienti di Goldman Sachs che entro il 2040 i Bric avrebbero scalato la gerarchia dell’economia planetaria. Il pil cinese avrebbe agganciato quello degli Stati Uniti; l’India avrebbe sorpassato il Giappone, piazzandosi al terzo posto. E nel complesso i Bric sarebbero cresciuti più del G7, l’élite del capitalismo mondiale formato da Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada. Alla brillante partenza del primo decennio dei 2000 è seguita una fase di rallentamento. Ma, nel complesso, le cose sono andate come aveva immaginato il finanziere di Goldman Sachs.
G7 e Brics a confronto
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) nota che nel 2022 i cinque Brics hanno prodotto il 31,5% del prodotto lordo mondiale, a parità di potere d’acquisto. Dal prossimo gennaio, con la formazione a 11, il «Brics plus», la quota della ricchezza totale salirà al 37,3% e continuerà ad allargarsi: 37,7% nel 2025, 38,5% nel 2028. Giusto per avere un termine di paragone: nel 2022 l’Unione europea ha coperto il 14,5% del pil mondiale (sempre a parità di potere d’acquisto); mentre il G7, il 30,3%. E nel 2028 la loro fetta di ricchezza si ridurrà ancora: quella della Ue (13,7%), quella del G7 (27,7%).
Nel blocco del G7 vivono 800 milioni di persone, vale a dire un quarto rispetto ai 3,2 miliardi di abitanti di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica. Il divario si allargherà nel 2024, con l’apporto dei sei nuovi ingressi: altri 400 milioni di residenti. Totale 3,6 miliardi: il 44,4% della popolazione complessiva abiterà nel territorio dei «Brics plus».
Il G7 può contare su riserve d’oro per 17.527 tonnellate. I Brics ne hanno 5.493 tonnellate. Ma gli «emergenti» già ora dispongono del 21% dello stock petrolifero e con l’arrivo di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Iran toccheranno la soglia del 41%. Sul fronte occidentale gli unici due produttori, cioè Stati Uniti e Canada, valgono rispettivamente il 20 e il 6%. Fin qui i dati di base dei due blocchi. Ma il punto è: quali sono gli obiettivi, dove vogliono e, soprattutto, possono arrivare i «Brics plus»?
Gli obiettivi
Il loro scopo dichiarato è costruire un ordine economico, commerciale e finanziario alternativo a quello creato dagli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra mondiale. Il primo passo è già stato compiuto: la costituzione della «Nuova Banca di Sviluppo» (Nbd). Ha cominciato a operare nel 2016, dalla sede di Shanghai, sotto la guida di una figura molto vicina a Lula, Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile (carica da cui fu sollevata per una serie di scandali). L’istituto è nato con L’ ambizione di diventare il Fondo monetario dei Paesi emergenti: prestare denaro ai governi in difficoltà senza chiedere drastiche riforme. Programma sintetizzato così dallo stesso Lula: «salvare, non affondare i Paesi come fa il Fmi». Gli azionisti della Banca sono i cinque Brics, a cui si sono aggiunti Egitto, Bangladesh ed Emirati Arabi. In sette anni di attività la Ndb ha messo in campo l’equivalente di 30 miliardi di dollari per finanziare circa 100 progetti legati alle infrastrutture, con il proposito di arrivare a 350 miliardi entro il 2030, scavalcando il Fmi che, secondo le cifre aggiornate al 15 novembre 2023, sta gestendo prestiti per circa 110 miliardi di dollari. La Nbd movimenta soprattutto le valute locali, nel quadro di una strategia più ampia: liberarsi della «dittatura del dollaro».
Scalzare il dominio del dollaro
Il tema è stato al centro dell’ultimo summit dei Brics, il 24 agosto 2023, a Johannesburg, in Sudafrica. Xi Jinping, Lula, Modi, il ministro russo Sergei Lavrov, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa sono partiti dalla centralità del dollaro. La moneta americana regola il 60% degli scambi commerciali internazionali e l’89% delle transazioni sul mercato dei cambi, cioè l’acquisto o la vendita di valuta. Nel settore finanziario i segnali sono più contrastanti. Le banche centrali stanno riducendo il peso del biglietto verde nella composizione delle riserve monetarie. Secondo il Fmi era pari al 65% del totale nel 2016, oggi è sceso al 59%. Nello stesso tempo, però, sono aumentate le emissioni di obbligazioni internazionali denominate in dollari: dal 38,5% del 2003 al 48,5% del 2023. Ciò significa che negli ultimi vent’anni sempre più Stati e sempre più imprese pubbliche o private si sono affidate alla moneta Usa per cercare risorse sui mercati finanziari esteri.
Pechino candida lo yuan
Ma i «Brics plus» sarebbero davvero in grado di lanciare una moneta unica, magari sul modello dell’euro, ideata e sperimentata da zero? La risposta largamente diffusa negli ambienti finanziari mondiali è «no»; e sarà così per un lungo periodo.
Il gruppo degli «emergenti» è troppo eterogeneo, con bilanci pubblici, politiche commerciali ed economiche spesso non compatibili. Difficile pensare di trovare un minimo comune denominatore tra un Paese indebitato come l’Argentina e una potenza traboccante di capitali come la Cina, giusto per fare un caso
Nel concreto, quindi, la «de-dollarizzazione» viene interpretata in due modi diversi. La prima è quella di Pechino. Il governo di Xi Jinping sta spingendo per candidare la propria moneta, lo yuan, a diventare l’alternativa alla divisa americana. Ma parte da molto lontano, forse da troppo lontano. Oggi lo yuan copre soltanto il 2,6% delle riserve valutarie nel mondo, contro il 5,8% dello yen giapponese, il 4,8% della sterlina britannica, il 20% dell’euro e, come abbiamo visto, il 59% del dollaro. Il restante 7,8% è espresso in dollaro canadese, dollaro australiano, franco svizzero e altre monete. A partire dal 2005 Pechino ha concluso una serie di accordi con le banche centrali, tra l’altro, di Malesia, Argentina, Nigeria per offrire lo yuan come moneta per le riserve valutarie.
La proposta di Lula
Inoltre i cinesi hanno sviluppato una piattaforma bancaria, in collaborazione con Thailandia, Hong Kong ed Emirati Arabi, da usare in alternativa allo Swift, il sistema più usato dagli istituti di credito mondiali per regolare i pagamenti finanziari e commerciali. L’attivismo di Pechino, tuttavia, sta incontrando forti resistenze tra gli stessi partner dei Brics. L’India e l’Indonesia, per esempio, hanno già fatto sapere di non essere interessati a sostituire il dominio del dollaro con quello dello yuan. Ecco, allora, il secondo possibile sviluppo della «de-dollarizzazione», così come lo ha spiegato il presidente brasiliano Lula: «Quando commerciamo tra noi, possiamo farlo tranquillamente usando le nostre monete, non abbiamo bisogno di ricorrere al dollaro». Questo schema, però, potrebbe avere un impatto limitato sulla mappa degli scambi mondiali. A meno che non aumenti in modo consistente il trade incrociato tra tutti Paesi del Brics. A cominciare da quello tra i due giganti: Cina e India. Nel 2022 il traffico tra i due Paesi è salito dell’8,2%, toccando la soglia di 135,9 miliardi di dollari. Ma le grandi direttrici del commercio transitano ancora per gli Stati Uniti e per l’Occidente. Due dati, sempre riferiti al 2022: l’interscambio tra Usa e India è stato pari a 191,8 miliardi di dollari; quello tra Usa e Cina addirittura a 758,4 miliardi. Alla prova dei fatti, quindi, i Brics non sono ancora nelle condizioni di poter fare a meno degli Stati Uniti e dell’Occidente, dei suoi prodotti, della sua tecnologia, della sua moneta di riferimento principale, il dollaro.
Il peso politico
Ma c’è un’altra, importante complicazione: difficile immaginare che questi 11 Paesi e quelli che verranno possano muoversi in maniera compatta sul piano politico e quindi condizionare il confronto negli organismi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. Oppure nel G20, il gruppo che riunisce periodicamente i leader delle prime 20 economie del pianeta. Gli orientamenti sono troppo diversi. Le guerre in Ucraina e a Gaza hanno messo in luce spaccature e netti contrasti. La Cina non ha condannato esplicitamente l’aggressione putiniana a Kiev. L’India lo ha fatto. Le dispute sulla definizione dei confini nazionali tra Pechino e Nuova Delhi sono costanti. Xi Jinping si propone di oscurare la l’influenza americana nella regione dell’Indo-Pacifico. Il premier indiano, Modi, invece, coltiva il dialogo con Joe Biden. Sul Medio Oriente: l’Iran vuole cancellare Israele dalla faccia della terra; l’Arabia Saudita era pronta a firmare un’intesa di cooperazione economica con Tel Aviv (gli Accordi di Abramo), in cambio della protezione militare di Washington, nonché della tecnologia a uso civile americana. La guerra di Gazae la violenta reazione israeliana, però, hanno ricompattato, almeno per il momento, il mondo musulmano contro il governo guidato da Benjamin Netanyahu. Le sfide del «Brics plus», dunque, saranno due. Quella verso l’Occidente e, in parallelo, quella di spianare i contrasti politici interni e di condividere la strategia su moneta, commerci, investimenti per mettere in discussione la centralità geoeconomica dell’Occidente.
Fonte: Corriere della Sera