Perché Mario Draghi
potrebbe essere il prossimo
segretario generale della Nato
L’ex presidente del Consiglio Mario Draghi vanterebbe un ampio fronte internazionale a sostegno della sua candidatura, dalla Francia di Macron agli Usa di Biden.
Tanto che i Paesi membri dell’Alleanza, più dell’Italia, lo vorrebbero vedere in quel ruolo.
Alla scadenza manca ancora un annetto ma se ne parla già da un po’.
E il fatto che ora non sia più presidente del Consiglio ha riattivato i rumors: Mario Draghi gode di ottime chances per diventare il prossimo segretario generale della Nato, prendendo il posto di Jens Stoltenberg, il cui mandato finirà nel settembre 2023.
L’avvicendamento alla carica di alto rappresentante diplomatico dell’Alleanza Atlantica ci sarebbe dovuto essere già quest’anno ma lo scoppio della guerra in Ucraina ha reso necessaria una sospensione e il parallelo prolungamento in extremis della reggenza dell’ex premier norvegese.
Al di là di quelli che potrebbero essere gli sviluppi dei prossimi mesi del conflitto ucraino, infatti, Stoltenberg avrebbe già pronto il ruolo di governatore della Banca centrale di Oslo.
Perché Draghi ha più chances:
dal rapporto con Macron
agli equilibri interni dell’Alleanza
Nel perenne gioco di incastri che la politica internazionale conosce assai bene, tra caselle che si liberano e incarichi che terminano, la posizione dell’ex presidente del Consiglio (ed ex governatore della Banca d’Italia, oltre che governatore della BCE) è data per favorita.
Gli elementi che giocano a suo vantaggio sono diversi: il prestigio internazionale, di cui gode ormai da tempo e che anche recentemente gli è stato confermato, da partner internazionali sino ai più influenti circoli politico-diplomatici.
In secondo luogo, il sostegno dei principali alleati in seno alla Nato non tarderebbe ad arrivare, essendo già stato manifestato in tempi non sospetti: il più convinto sponsor di Draghi è il presidente francese Emmanuel Macron, che si definisce ormai “amico personale” dell’ex banchiere centrale e che non perde occasione per esprimere tutta la stima e la riconoscenza nei suoi confronti.
Lo ha fatto quando Draghi si è dimesso, lo scorso 21 luglio. Lo ha ribadito nell’ultimo fine settimana, quando è venuto a Roma per una visita informale (nel corso della quale ha anche incontrato la neopremier Meloni).
E soprattutto, lo ha invitato ad una cena privata quindici giorni fa a Parigi, per mettere sul piatto e in modo esplicito, dicono i ben informati, la “candidatura” alla guida dell’Alleanza Atlantica.
Il rapporto tra i due, si sa, dura da tempo e ha avuto tra i momenti di maggior celebrazione la firma del Trattato del Quirinale, siglata a Roma il 26 novembre 2021 alla presenza del capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella.
Un accordo volto alla maggior cooperazione tra Francia e Italia e paragonato, per questo, al Trattato dell’Eliseo, che la Francia stipulò con la Germania per rafforzare l’alleanza franco-tedesca.
Il governo Meloni
e le ragioni politiche per avere
Draghi a capo dell’Alleanza
Ci sono considerazioni di carattere più strettamente politico sul perché Mario Draghi segretario generale della Nato potrebbe costituire un motivo di rassicurazione in più tra gli alleati internazionali dell’Italia, e tra i Paesi membri dell’Alleanza.
E questa ragione si intreccia a doppio filo con il governo Meloni e il fatto che al suo interno vi sono due “azionisti di minoranza” (Matteo Salvini e Silvio Berlusconi) che, più massicciamente in passato, non hanno fatto mistero della propria special relationship con Vladimir Putin.
In tempi recenti, gli alleati di governo di Giorgia Meloni – il cui atlantismo è stato rivendicato e ribadito con orgoglio – hanno in qualche modo provato a “tirare il freno a mano” sulle passate simpatie per il leader del Cremlino, audio rubati a parte.
Ecco perché, in altre parole, avere a capo della Nato un italiano di sicura fede filoccidentale, europeista e dalla parte di Kiev, potrebbe quasi convenire di più ai nostri partner europei e americani che alla stessa Roma.
Va comunque precisato che l’appoggio di Palazzo Chigi per ottenere la nomina è indispensabile.
Gli altri sponsor:
dall’asse “mediterraneo”
alla promessa di Barack
La Francia non sarebbe la sola a sostenere Draghi nella corsa al quartier generale di Bruxelles: Parigi, pur essendo uno dei membri più importanti dell’Alleanza, potrebbe trovare sponde anche a Madrid e a Lisbona, in un ideale “asse del Mediterraneo” che gli spianerebbe la strada.
La Spagna esprime infatti con Josep Borrell l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza; e difficilmente riuscirebbe a imporre un suo candidato al posto di Draghi.
Portoghese è Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, cosa che rende difficile la partita anche per Lisbona, per un eventuale competitor lusitano. E poi c’è l’America, il maggior finanziatore della Nato oltre che perno di tutta l’Alleanza, a cui comunque spetta dare il sì definitivo sulle nomine.
Al di là delle manifestazioni di stima indirizzate a Draghi dal presidente Biden, c’è un precedente che potrebbe pesare, e non poco, sui giochi diplomatici: nel 2009 l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini era in corsa per sostituire il segretario uscente, l’olandese de Hoop Scheffer, ma alla fine gli fu preferito il danese Anders Fogh Rasmussen.
L’allora capo dello Stato italiano, Giorgio Napolitano, fece pressione su Barack Obama perché l’Italia fosse in qualche modo compensata da quella sconfitta al photo-finish: l’inquilino della Casa Bianca gli promise che Roma avrebbe avuto il sostegno degli Usa in futuro.
Ora, è pur vero che i protagonisti in carica sono cambiati e nel frattempo la diplomazia e la politica internazionale sono entrate in fasi nuove e inedite. Ma sulla carta un impegno c’è.
Chi potrebbe contendere
a Draghi il segretariato:
Regno Unito e Lituania
Un auspicabile sostegno così ampio e forte è la condizione necessaria ma non sufficiente per spuntarla.
Quali sono, a questo punto, i candidati di altri Paesi membri che potrebbero strappare a Draghi lo “scettro” di successore di Jens Stoltenberg?
Il Regno Unito freme con, da una parte, l’ex premier conservatrice Theresa May, la traghettatrice di Londra fuori dall’Unione europea, colei che ha dato forma e sostanza alla Brexit.
Dall’altro lato, c’è la baronessa Catherine Ashton, già Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza tra il 2009 e il 2014. Due candidature (femminili) di peso, che in questo modo ridarebbero prestigio alla leadership di una donna sulle sponde del Tamigi, che negli ultimi tempi ha subito qualche ammaccatura con la sfortunata parabola di Liz Truss.
Un’altra opzione, forse ancora più insidiosa e al passo con i tempi, potrebbe venire dai membri baltici della Nato, quei Paesi che hanno spinto l’acceleratore della contrapposizione a Mosca all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, e che darebbero all’Alleanza una connotazione ancor più fortemente anti-putiana: la favorita, in questo senso, è Dalia Grybauskaite, presidente della Lituania per dieci anni (2009-2019) e viceministro degli Esteri di Vilnius, oltre che Commissario europeo per la programmazione finanziaria e il bilancio.
Un curriculum di tutto rispetto, insomma, che confermerebbe lo standing internazionale di una donna considerata autorevole.
Chi ha avuto in mano più a lungo
le leve della Nato:
Regno Unito, Paesi Bassi e… Italia
Anche andando a spulciare tra gli annali, i numeri e le statistiche relative alla storia della Nato offrono un conforto al “sogno draghiano”:
l’Italia, infatti, ha già espresso un segretario generale (Manlio Brosio, in carica tra 1964 e il 1971), oltre a vantare due diplomatici che hanno svolto l’incarico ad interim: Sergio Balanzino (nel 1994 e nel 1995) e Alessandro Minuto Rizzo (tra il dicembre 2003 e il gennaio 2004). Erano entrambi vicesegretari e il dato non va sottovalutato: il nostro Paese detiene il record di segretari delegati, dal momento che ben dieci diplomatici hanno ricoperto questa carica dal 1958 al 1964 e, ininterrottamente, dal 1971 al 2012.
Ma i Paesi che per più tempo hanno espresso al vertice della Nato propri segretari sono il Regno Unito e i Paesi Bassi. Si tratta degli inglesi Hastings Lionel Ismay (1952-1957), Peter Carrington (1984-1988) e George Robertson (1999-2003) e degli olandesi Dirk Stikker (1961-1964), Joseph Luns (1971-1984) e il già citato Jaap de Hoop Scheffer (2004-2009).
Ma non va dimenticato il Belgio, che ha avuto due segretari (Paul-Henri Spaak, dal 1957 al 1961, e Willy Claes, dal 1994 al 1995).
Eppure, c’è l’altra faccia della medaglia: il fatto, cioè, che vi siano alcuni Paesi membri che non hanno ancora espresso un loro segretario potrebbe costituire un freno oggettivo alla corsa di Draghi, dal momento che questi Stati, legittimamente, “scalpitano”.
Gli sfidanti interni di Draghi:
Letta, Mogherini, Renzi
Capitolo a parte, ma non si può tralasciare neanche questo aspetto, i contendenti “interni” dell’ex presidente del Consiglio.
Che, tra l’altro, sono essi stessi due ex premier: Enrico Letta e Matteo Renzi.
Enrico Letta
A lungo divisi da un’antica rivalità, accentuata da come l’attuale segretario del Pd, nel 2014 a Palazzo Chigi, fu messo alla porta dall’ex sindaco di Firenze con l’ormai celebre “Enrico, stai sereno”.
I buoni rapporti di Letta con la Francia, e con Macron in particolare, non sono un mistero per chi segue queste vicende: prima di tornare in Italia a guidare il Pd, infatti, l’ex premier pisano nel 2015 si era trasferito a Parigi per insegnare a Science Po, la prestigiosa Grande École di studi politici.
Nel 2017, inoltre, era entrato nel Comitè Action Publique 2022, una commissione pubblica per la riforma dello Stato e della Pubblica amministrazione francese, voluta con forza dallo stesso Macron.
L’inquilino dell’Eliseo, quindi, potrebbe perorare anche la causa di Letta, oltre che di Draghi.
E ora che il primo si appresta ad avere le mani libere (nei prossimi mesi il congresso del Partito democratico eleggerà un nuovo segretario), è probabile che Letta si faccia coinvolgere nella corsa alla successione di Stoltenberg.
Federica Mogherini
Se poi si esclude Federica Mogherini (anche lei Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza tra il 2014 e il 2019 e attuale rettrice del Collegio d’Europa), l’altro aspirante “di peso”, che non ha mai fatto mistero delle sue ambizioni extranazionali, è Matteo Renzi.
Matteo Renzi
Già da quando non fa più parte della famiglia del Pd, il premier “dei mille giorni” si è ritagliato un ruolo di conferenziere internazionale e consulente di importanti think tank, oltre ad aver preso parte a tavoli permanenti ed eventi in Medio Oriente, Asia e America.
Le mosse del fu enfant prodige della politica italiana sono segno di un’irrefrenabile voglia di visibilità (fuor di metafora, potere?), che si è potuta sperimentare anche nei passaggi cruciali della vita politica nazionale, facendo cadere governi e creando alleanze parlamentari ex novo.
In più, se Renzi andasse al quartier generale della Nato, a Bruxelles, lascerebbe mani libere al suo alleato Carlo Calenda, che così potrebbe gestire in piena autonomia le sorti del Terzo polo.
FONTE: rainews