Carriera Alias? Ecco perché è illegale
La «carriera alias» è conforme alle disposizioni del nostro ordinamento giuridico, oppure si tratta di qualcosa di incompatibile con le leggi italiane?
Ricollegandoci all’articolo precedente Carriera Alias ora vediamo l’aspetto giuridico
La «carriera alias», per chi non lo sapesse, consiste nella facoltà, riconosciuta da un apposito regolamento scolastico, di attribuire, nell’ambito della scuola, un nome e/o un’identità conforme alla c.d. identità di genere di studenti che si identificano come “transgender”, contrastante però con il sesso biologico e anagrafico, nonché con il nome registrato all’anagrafe.
Tanto i promotori, naturalmente, ma spesso anche i critici di questo strumento, di solito non si misurano con il quesito della sua legittimità giuridica.
Il dibattito pro o contro la «carriera alias» si ferma spesso, infatti, al piano bioetico e morale; il che è comprensibile.
Esiste però anche un livello giuridico che pare francamente ineludibile, allorquando si affronta il tema di nuove e alternative identità basate esclusivamente sulla percezione di sé.
Per rendersene conto, ancor prima di consultare i giuristi, è sufficiente leggere le norme.
A partire dall’articolo 6 del Codice Civile, che dispone che «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati». L’esclusione tassativa di «cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati» – tra le quali non rientra la «carriera alias», non disciplinata per legge – è senza dubbio un dato notevole; ma non è il solo.
Su questo tema si è anche pronunciata, infatti, la magistratura; più precisamente, è accaduto che la Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza 17 febbraio 2020, n. 3877, abbia affermato che «il legislatore nazionale, con la L. n. 164 del 1982, art. 5 ha richiesto una corrispondenza assoluta tra sesso anatomico e nome, manifestando preferenza per l’interesse alla certezza nei rapporti giuridici rispetto all’interesse individuale alla coincidenza tra il sesso percepito e il nome indicato nei documenti di identità». Conseguentemente, la Cassazione ha sottolineato che «l’attribuzione del nuovo nome – pur non essendo espressamente disciplinata dalla L. n. 164 del 1982 – consegue necessariamente all’attribuzione di sesso differente, al fine di evitare una discrepanza inammissibile tra sesso e nome». Tutto questo alla luce del fatto che, in altre precedenti sentenze, era stato stabilito che «al nome, quale segno distintivo della persona, si applica la legge dello Stato cui il soggetto appartiene», quindi, «i provvedimenti che possono incidere sul nome sono soltanto quelli previsti dall’ordinamento dello Stato di appartenenza».
La conferma che il cambio di nome non può essere né qualcosa di automatico, né essere stabilito da un ente come quello scolastico ci viene inoltre dall’art. 89 del D.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, che dispone come «salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque» desideri «cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome […] deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce». Nessun cenno dunque, neppure remoto, alla facoltà della scuola d’introdurre la «carriera alias» che, alla luce di quanto detto, risulta un istituto viziato da incompetenza – per ciò pure in violazione dell’art. 97 della Costitizuine – e adottato in violazione di legge. Diverso sarebbe, naturalmente, se all’amministrazione scolastica fosse attribuito un qualche potere in materia di modifica anche temporanea e anche solo nel perimetro didattico del nome o dell’identità – ma tale attribuzione, norme alla mano, non c’è.
Non solo. Per completezza, va rimarcato come non siano ammessi dalla legge provvedimenti dell’amministrazione scolastica che abbiano carattere anticipatorio rispetto ad un eventuale provvedimento giurisdizionale che rettifichi l’attribuzione del sesso e il nome attribuito alla nascita.
Quanto fin qui detto colloca quindi ogni regolamento in materia di «carriera alias» non solo fuori dalle previsioni dell’ordinamento, ma nel mirino, per così dire, della legge penale, che ha una previsione molto precisa al riguardo.
Ci riferiamo all’art. 479 del Codice penale, che prevede il reato di “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”. In sintesi, la norma punisce – con reclusione da tre a dieci anni, se la falsità concerne un atto che faccia fede fino a querela di falso – il pubblico ufficiale, che, «ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza […] o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità».
Perché è significativo tutto questo? Semplice:
i documenti ufficiali dell’istituzione scolastica, in particolare il registro di classe e il registro dei professori – anche in forma elettronica -, costituiscono atti pubblici di fede privilegiata, e agli insegnanti compete la qualifica di pubblici ufficiali.
Ecco che allora, se l’insegnante dovesse attestare – ad esempio – la presenza o assenza di una persona con nome e genere divergente dai dati anagrafici, ciò costituirebbe, alla luce di quanto sin qui detto, una falsità commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.), considerato altresì che l’Ordinanza Ministeriale 2 agosto 1993, n. 236, in materia di valutazione degli alunni della scuola elementare, specifica che «il registro di classe riporta: […] elenco e dati anagrafici degli alunni, presenze e assenze» (art. 5 comma 4).
Il lettore arrivato fin qui sarà già impressionato dalla vasta incompatibilità tra la «carriera alias» e le previsioni del nostro ordinamento; ma non è finita.
Va infatti ricordato, restando sul Codice penale, che oltre al citato articolo 479, c’è anche il 494, che prevede il reato di “Sostituzione di persona”, ai sensi del quale è punito chiunque «al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici».
Come mai questo richiamo è rilevante?
Perché, visti i profili attinenti alla privacy – e quindi alla potenziale relativa “segretezza” dell’identità biologica e anagrafica del richiedente la carriera alias, nonché al cambio di nome e di identità su alcuni documenti interni e all’incoraggiamento (o addirittura l’obbligo) rivolto al personale scolastico (o agli altri studenti) di usare il nome contrastante con il sesso biologico e con l’identità anagrafica – il regolamento della «carriera alias» potrebbe creare situazioni in cui alcuni sono indotti in errore rispetto al nome e all’identità del richiedente la carriera alias.
Un avvocato, a questo punto, chioserebbe osservando che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente il reato in questione – vale a dire il citato articolo 494 del Codice penale – in fattispecie simili a quelle che potrebbero risultare dall’applicazione del regolamento scolastico.
Infine, va evidenziato come, per la sussistenza del reato di sostituzione di persona, non è necessario che il fine propostosi dall’agente sia in sé stesso illecito o di natura patrimoniale, ben potendo essere lecito e non patrimoniale.
Da ultimo c’è un aspetto che, specie chi ha responsabilità scolastiche, non può non considerare, vale a dire il concorso morale o materiale nel possibile reato, ovvero l’istigazione o l’apologia pubblica dei reati di falso o di sostituzione di persona costituiscono a loro volta reato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 110, 414, 479 e 494 c.p.
Morale, se in apertura ci si era chiesti se la «carriera alias» fosse conforme alle disposizioni ordinamentali italiane, l’unica conclusione che se ne può trarre è che non solo essa sia del tutto priva di basi giuridiche, ma che le leggi, lette in modo coordinato, formano un solido argine contro regolamenti scolastici che la includano. Di tutto ciò sono consapevoli i dirigenti scolastici che appoggiano simili iniziative? A questo punto, la sola domanda che resta in piedi è proprio questa.
Fonte: provitaefamiglia