Trump e l’accelerazione reazionaria
A differenza del 2016, Trump ha un piano: proiettare il passato nel futuro.
Da Musk ai rednecks, il suo stile ha definito una coalizione nuova e forte.
Per coglierla, Lorenzo Castellani crea una nozione: l’accelerazione reazionaria.
Accelerazione reazionaria
Possono i complottisti dell’America rurale e gli uomini più ricchi del mondo votare per lo stesso Presidente?
Sì e possono anche farlo vincere.
Questo è il curioso caso del secondo mandato conquistato da Donald Trump.
La costruzione di un’alleanza estremamente eterogenea – che forse potremmo battezzare di accelerazione reazionaria – che è stata capace di unire le classi sociali medio-basse di aree interne e periferie con un pezzo sostanzioso dell’establishment americano.
L’alleanza che ha portato per la seconda volta al potere Donald Trump è sostanzialmente diversa da quella che gli aveva permesso di sconfiggere Hillary Clinton nel 2016.
Il presidente americano ha costruito un nuovo deal con la società americana: l’oligarchia e l’accelerazione tech da una parte — la conservazione identitaria e la protezione dall’altra.
E’ questa fusione tra establishment vecchio e nuovo e l’elettorato più periferico sul piano geografico, sociale e culturale il vero elemento di rottura di queste elezioni.
I razzi, le sonde spaziali proiettate verso la vita extraterrestre degli umani, i robot, le auto che si guidano da sole, il transumanesimo, l’alta finanza sempre alla ricerca della prossima distruzione creatrice, le industrie dell’energia vecchia e nuova si mescolano con un elettorato che diffida del governo, che rivendica la propria disobbedienza all’alta cultura progressista che prevale nelle istituzioni educative, che ricerca in sette e chiese la propria forma di resistenza alla modernità, che reclama protezione dalle merci straniere, che richiede lavoro manifatturiero sul territorio, che pretende una limitazione netta dell’immigrazione.
Da un lato l’accelerazione di un’America che non vuole vincoli e regolazione, ma investimenti e slancio verso il futuro; un’élite che non disprezza la globalizzazione ma vuole governarla; un gruppo di potere che intende imporre un proprio canone linguistico e culturale con prospettive futuriste.
Dall’altro la reazione dell’America dei piccoli centri, del lavoro manuale e della concretezza, dei meno istruiti, di un’immigrazione integrata nel tessuto produttivo.
E’ in questa saldatura che va inquadrato il ritorno di Trump
L’accelerazione reazionaria è alla base della nuova maggioranza elettorale americana; della struttura sociale che si è imposta in cui l’alto e avanzato, l’élite tecnologica e capitalista, convive con il basso e conservatore, la base di Trump e del suo fondamento populista primigenio.
Essa definirà il modo in cui la nuova amministrazione guarderà agli Stati Uniti e al resto del mondo.
Questa è la grande novità sottovalutata da gran parte degli analisti di questa competizione elettorale presidenziale.
Il primo Trump era il populista puro, il maverick che saccheggiava un Partito Repubblicano ridotto ai minimi di termini della propria capacità politica, la scheggia impazzita che somigliava ad un Joker amato soltanto dall’America deindustrializzata, un candidato vincitore perché fortunato nel trovare sulla propria strada Hillary Clinton che sbagliò su molti fronti nel 2016.
Il Trump I era un salto nel vuoto di cui dubitavano anche molti intellettuali conservatori, tenuto a distanza da quasi tutti i magnati della nuova industria digitale e tecnologica, guardato con timore da Wall Street, avversato da quasi tutti i media.
Il Trump II si presenta come una creatura molto diversa da quella del 2016 e soprattutto dal Presidente uscente sconfitto che ad inizio 2021 benediceva l’insurrezione al Congresso dei suoi supporter scalmanati.
Quello era un Trump sovversivo ripudiato dai tycoon del digitale, considerato pericoloso per le istituzioni repubblicane, abbandonato da Pence, rigettato dall’apparato di intelligence.
Trump II ha scardinato l’unità dell’establishment americano, ha costruito un nuovo mainstream, non ha soltanto vinto le elezioni ma ha cambiato il quadro politico proiettando avanti il Partito Repubblicano anche nel voto popolare, per la prima volta dal 2004.
Come è potuto accadere tutto questo e in così poco tempo?
Come Biden ha perso le élite
Molte delle idee del Trump I sono sopravvissute nel corso della presidenza Biden.
Il protezionismo tecnologico verso la Cina e quello industriale verso gran parte del mondo, la maggior spesa in politica industriale e il tentativo di rimpatriare la produzione manifatturiera, un maggior deficit federale e un progressivo disimpegno militare internazionale sono elementi che, pur in forme e linguaggi differenti, sono stati mantenuti dall’amministrazione democratica uscente. Come è stato detto da Adam Tooze, Biden è MAGA per gli intellettuali.
Le idee, molto eterodosse espresse da Trump nel 2015, sono diventate moneta corrente per il governo della nazione.
Hanno pesato poi gli sviluppi in politica internazionale.
Gli Stati Uniti di Biden hanno subito l’invasione in Ucraina della Russia di Putin.
Il racconto mediatico l’ha messa poi in un altro modo per cercare di reagire allo shock dell’invasione e non perdere Kiev in poche settimane, operazione condotta con successo da Biden, ma una realtà innegabile è che la deterrenza americana verso la Russia è fallita.
E ciò ha costretto la Casa Bianca ad impegnarsi in una parte di mondo da cui voleva invece tenersi lontana sul piano militare.
Ciò ha implicato nuovi impegni sul piano della spesa per la difesa mal tollerati non solo dall’elettorato repubblicano ma anche da una parte di quello democratico.
Energia per la tesi di Donald Trump verso la Russia e Putin.
Lo stesso vale per il Medio Oriente, con un’amministrazione democratica incastrata dai gruppi pro Palestina che mettevano pressione sul partito e il tentativo di arginare Netanyahu.
Un tentativo che con tutta evidenza è fallito.
Un pezzo dello stato ha cominciato a chiedersi: con Trump sarebbe andata peggio o ci sarebbe stata invece maggior stabilità internazionale?
Dopotutto, al di là dei tweet, il primo mandato di Trump non era stato affatto disastroso in politica internazionale ottenendo buoni risultati in Medio Oriente e nei confronti della Cina.
C’è stata poi l’inflazione, una delle questioni fatali anche per il rapporto tra un pezzo dell’establishment economico e i democratici.
In una economia che cresceva, l’amministrazione Biden ha scelto di espandere il deficit federale in maniera sproporzionata tanto da generare una crescita ulteriore che ha infiammato l’inflazione.
In proporzione è stato calcolato che Biden abbia speso più di Roosevelt negli anni del New Deal.
L’inflazione, è noto, colpisce le classi medie ma molto critici verso la politica economica dei democratici, considerata troppo espansiva e statalista, sono stati anche esponenti del mondo finanziario come Jamie Dimon, presidente di JP Morgan.
Un problema si è rivelato anche il Green Deal, uno dei cavalli dell’amministrazione Biden, con la finanza ambientale che ha stentato a decollare e una crescente disillusione dell’establishment americano verso le politiche ecologiche, basti vedere in merito i passi indietro del CEO di BlackRock, Larry Fink.
Non è un caso se i sondaggi indicavano in modo netto Trump come il più affidabile tra i due candidati alla presidenza per governare l’economia.
C’è stata poi la reazione della Silicon Valley agli eccessi del dirigismo economico dell’amministrazione Biden e l’assalto contro “la politica woke” su cui hanno marciato alcuni pezzi grossi del capitalismo tecnologico come Elon Musk e Peter Thiel.
Una guerriglia culturale nata come risposta all’esondazione ideologica delle università dell’Ivy League, deragliata in questi anni in eccessi di politicamente corretto che hanno scosso un pezzo di mondo economico e finanziario.
Bill Ackman, un finanziare multimiliardario da alcuni considerato l’erede di Warren Buffett, votava democratico e nell’ultimo anno ha scelto di supportare la crociata di Musk e degli altri tech guru contro la sinistra americana dei campus.
Un conflitto che Musk ha sfruttato per comprare Twitter in nome del free speech e per creare un ecosistema mediatico, che si nutre di avventure editoriali autonome come quelle di Joe Rogan e Tucker Carlson, capace di spingere Trump ed evitare censure in quello che è il più influente social network dal punto di vista politico e mediatico.
Ha pesato in queste scelte dell’establishment a favore di Trump anche il sostegno alla Palestina di un’ala del partito democratico e delle sue pendici intellettuali, dove un pezzo dell’élite moderata non ha digerito l’eccesso di tolleranza nei confronti degli atti terroristici di Hamas.
Non si deve dimenticare che i finanziatori dei grandi college, Harvard e Princeton in testa, ad inizio 2024 hanno preteso la testa dei Presidenti delle università che avevano difeso posizioni considerate antisemite.
Il colpo finale per la spaccatura dell’establishment assestato da Trump è stato il ritiro di Joe Biden, garante democratico moderato per molti di questi mondi, e la sua sostituzione in fretta e furia con una vicepresidente dalla leadership debole, percepita come più vicina all’ala di sinistra.
Il Trump del 2024
Trump II non è una operazione senza regia come il Trump I.
Non c’è soltanto Musk con la sua idea di una Commissione per migliorare l’efficienza del governo, non c’è soltanto Peter Thiel con le sue idee tecno-libertarie o il miliardario trentenne impegnato nello sviluppo della realtà aumentata Palmer Luckey, ma con un atteggiamento di sostegno o comunque aperto al dialogo ci sono anche esponenti dell’ala nobile del capitalismo americano come il CEO di Blackstone Steve Schwarzman, il gestore di hedge fund Bill Ackman, il Presidente di JP Morgan Jamie Dimon che nell’ultimo Davos spiazzò molti sostenendo che Trump avesse ragione su molte questioni, e persino Larry Fink, CEO di BlackRock, si è dimostrato più aperto nei confronti del Tycoon rispetto al passato, mentre il fondo Vanguard ha massicciamente acquistato negli ultimi mesi le azioni del Trump media group con una azione che certo non mostrava ostilità verso il candidato repubblicano.
In termini di analisi delle élite, queste sono le vere novità delle presidenziali del 2024.
Donald Trump non è più soltanto il populista carismatico che ha un rapporto viscerale con l’America profonda e produttiva alla vecchia maniera, ma è il presidente che incorpora una operazione d’élite estranea alla politica, all’amministrazione e ai suoi mestieri che include tecnologi, finanza, media e mondo intellettuale.
E qui si porrà una delle questioni principali del Trump II, cioè la composizione di una squadra di governo che per il Presidente degli Stati Uniti è molto vasta. Se sarà semplice trovare una quadra dentro il partito per i posti del gabinetto presidenziale, sarà molto meno semplice trovare personale valida e in grado di fornire garanzie di stabilità e competenza per riempire i posti apicali del civil service, selezionare i direttori delle numerose e potenti agenzie amministrative, scegliere i consiglieri del Presidente e i giudici federali.
Il Trump I fu un disastro da questo punto di vista con una raffica di incarichi brevi, dimissioni a ripetizione, decine di nomine pubbliche che non furono mai completate e un funzionamento azzoppato della macchina federale. Vedremo se una coalizione che una maggior sponda nell’establishment economico e tecnologico, ma che ha sempre Trump e le sue asperità caratteriali all’apice, riuscirà a generare anche una élite di governo repubblicana in grado di non autosabotarsi, di non gridare al complotto del deep state ogni settimana e di non danneggiare in definitiva il lavoro politico della Casa Bianca.
Ciò che emerge in questi mesi è che negli Stati Uniti non c’è più un’oligarchia compatta che vuole credere ancora, per le ragioni sommariamente elencate, nella promessa di progresso, affidabilità e stabilità offerta dal Partito Democratico.
Al contrario esiste oggi una parte molto elevata della società americana che vuole riconnettersi con l’America del lavoro e delle province e per questo ha scelto Trump.
Accelerazione reazionaria
Il futuro di una contro-élite
D’altronde, una élite può sopravvivere soltanto in due condizioni: se non perde totalmente la propria legittimazione nel regime in cui opera; se non si conforma completamente in una unità indistinguibile tale da diventare bersaglio dei tribuni della plebe (come accaduto nel 2016).
E’ per questo che intorno alla seconda avventura di Trump si è creato un contro-establishment, una élite che cerca uno spazio differente rispetto a quello che era garantito dai democratici e che non era stato concesso dalla prima presidenza Trump fondata sul populismo, che si riconosce in certi valori culturali e segna alcune priorità politiche alternative a quelle del vecchio establishment unitario di estrazione bushiana e clintoniana.
Oggi questa contro-élite, che oramai esiste ed ha mostrato la propria forza politica, si trova di fronte al difficile compito di evolvere da alleanza elettorale che esprime un accelerazionismo reazionario di successo in élite di governo, nel più classico caso di ricircolo delle classe politica e di accomodamento della vecchia élite capitalista nei confronti del Trump II.
Ecco allora in opera il grande riallineamento dell’establishment americano intorno al più improbabile dei propri uomini, Donald Trump, che resta pur sempre un membro, per quanto peculiare, dell’upper class americana.
Una pluralizzazione dell’élite è sostanzialmente in atto: quelli che sostengono Trump vogliono rilegittimarsi agli occhi dell’America profonda, distinguersi da chi propala l’ideologia woke e la cancel culture, partecipare al ridisegno di alcune partite internazionali che sono considerate come perdenti.
È un disegno meno evidente, perché passa più dalla finanza e dall’industria che non da media e università, ma sostanziale.
Sul piano elettorale tutto questo ha funzionato bene portando Trump alla Casa Bianca per la seconda volta e con premesse diverse dalla prima.
A conclusione
Ora resta una domanda in sospeso la cui risposta emergerà soltanto nei prossimi mesi:
questa coalizione tra Trump e un buon pezzo dell’élite americana saprà restare unita di fronte alle scelte di governo?
Il presidente sceglierà uomini graditi a chi ha finanziato la campagna elettorale e lo ha sostenuto o ripiomberà nel tira e molla schizofrenico col suo staff che ha segnato in negativo il Trump I?
Saprà tenere insieme le parti più radicali dell’elettorato con chi contribuisce in altre forme, spesso invisibili e molto influenti, al governo del Paese?
Riuscirà una coalizione tanto ampia quanto composita a restare unita dando al paese un governo funzionante e ricostruendo un nuovo Partito Repubblicano che domani sia in grado di sopravvivere al trumpismo?
Come reagirà l’altra metà dell’establishment che oggi è perdente: guerra totale come nel 2016-2021 oppure ricercherà un appeasement con Trump?
Sarà possibile per un presidente anziano – il più anziano della storia – governare gli Stati Uniti senza élite politiche e amministrative?
Sono queste tra le domande più interessanti che segnano l’oggi e le cui risposte arriveranno solamente nel prossimo anno.
Quello che è probabile però è che dall’America si profila un nuovo movimento sui generis: l’accelerazione reazionaria.
Fonte: IlGrandContinent
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