Appello di 120.000 medici: privatizzazioni e definanziamenti mettono a rischio il SSN
“Le Organizzazioni sindacali, in rappresentanza di 120.000 medici, veterinari e sanitari dipendenti chiedono alle forze politiche di impegnarsi in difesa del Servizio Sanitario pubblico e nazionale, del ruolo dei medici e dei dirigenti sanitari al suo interno, del valore del suo capitale umano”: è quanto si legge all’interno del “Manifesto per la nuova sanità”, un comunicato dell’intersindacale “Uniti per la sanità”.
Tramite quest’ultimo, i principali sindacati del settore in vista delle prossime elezioni lanciano l’allarme sullo stato del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), il cui futuro pare alquanto incerto.
“Il ridimensionamento dell’intervento pubblico, la china avviata verso la privatizzazione, la carenza strutturale di medici specialisti, il peggioramento delle loro condizioni di lavoro, le fughe verso la quiescenza e lidi professionali diversi dalla dipendenza pubblica, mettono a rischio la sopravvivenza del servizio sanitario a 45 anni dalla sua nascita“:
questo affermano infatti le organizzazioni sindacali, che pongono poi la lente di ingrandimento non solo sull’ ”emergenza ospedali” caratterizzata da “pronto soccorso allo stremo, liste d’attesa infinite ed un continuo ricorso alle soluzioni estemporanee più fantasiose”, ma anche sull’”emergenza territorio”, che “la riforma finanziata con i fondi del PNRR rischia di non riuscire a risolvere, in assenza di ulteriori investimenti a regime”.
Problemi importanti dunque, che però generalmente non sembrano essere oggetto degli “interventi prioritari promessi dai partiti politici nella campagna elettorale in corso”.
Eppure la “necessità di ricostruire un ambiente politico, sociale e culturale nel quale la tutela della salute come di tutto il sistema di welfare siano considerati fattori di produzione di ricchezza collettiva, nella misura in cui lo stato di salute e di benessere fisico e psichico di una popolazione correlano direttamente con lo sviluppo sociale e culturale di un Paese”, è quanto mai attuale.
La pandemia da Covid-19, infatti, non ha risparmiato “nessuna delle fragilità del nostro SSN e del nostro sistema Paese”, con il virus che “ha funzionato da acceleratore di fenomeni esistenti cambiando radicalmente, e forse definitivamente, lo scenario in cui ci muoviamo”.
È per questo, quindi, che i sindacati ribadiscono che “la sanità pubblica, equa, solidale e universalistica produce e non consuma ricchezza”, aggiungendo che “la ricostruzione economica e sociale post Covid-19, tra crisi energetica e conseguenze della guerra in Europa, non deve farla slittare in basso nell’agenda delle priorità, considerandola un oneroso capitolo di spesa del bilancio pubblico, a dispetto della sua mission di presidio di diritti fondamentali di ciascuno e di tutti”.
Un fine che però, a quanto pare, ad oggi non può essere perseguito in maniera adeguata, visto che al momento “continua la fuga dei medici dagli ospedali, la sofferenza del personale medico e sanitario e la sofferenza dei pazienti che non trovano risposte alle richieste di cure in un sistema vicino al collasso, senza differenze di latitudine”.
Cosa bisogna fare, dunque?
Secondo le organizzazioni c’è bisogno di occuparsi della condizione dei professionisti.
“La sostenibilità del servizio sanitario passa per la valorizzazione, l’autonomia e la responsabilità degli stessi”, affermano infatti i sindacati, spiegando che “parlare di sanità significa parlare di lavoro in sanità e parlare di lavoro significa parlare di capitale umano”.
Di conseguenza, “per i medici, i veterinari e i dirigenti sanitari del SSN, tramontata la retorica, occorrono nuove risorse, a partire dalla prossima Legge di Bilancio, e interventi legislativi che valorizzino il loro ruolo”.
Gli stessi, si legge infine nel comunicato, dovrebbero tra l’altro essere finalizzati a:
“aumentare le retribuzioni, detassando gli incrementi contrattuali e il salario accessorio”, “abrogare il famigerato art. 23, comma 2 del decreto 75/2017 che pone un tetto al salario accessorio” e “superare la politica dei tetti di spesa al personale”.
Riguardo quest’ultimo punto, bisogna ricordare che appunto esiste un “tetto di spesa” per il personale, introdotto per la prima volta dalla legge Finanziaria del 2010 (191/2009), la quale prevedeva – come riportato da Quotidianosanità – “che il livello massimo di spesa per il personale doveva parametrarsi a quello dell’anno 2004 diminuito dell’1,4 per cento”.
Negli anni tale indicazione è stata più volte rivista, e ad oggi si prevede che la spesa nazionale non debba superare il valore di quella del 2018. Per aggirare tale “limite”, tuttavia, le strutture sanitarie utilizzano principalmente due metodi:
il primo consiste nel chiedere ai professionisti che già lavorano in una struttura di fare degli straordinari e di essere pagati a gettone, mentre il secondo prevede che le strutture si accordino con cooperative e società, che forniscono medici a gettone.
Si tratta però di una logica letteralmente malata che comporta diversi problemi, tra cui ad esempio quello della inadeguata preparazione:
come infatti spiegato dal presidente di Simeu, Fabio De Iaco, «non è raro che nei pronto soccorso lavorino neolaureati non specializzati».
di Raffaele De Luca
Fonte: L’Indipendente