L’impasse tedesca e il futuro dell’Europa nella variabile trumpiana. Mentre è escalation Nato/Russia
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Trump si accinge a tirare reti già gettate, distinguendosi per stile e metodo, con strattoni che accelerano le dinamiche in atto.

A urne ancora “calde”, neppure insediato, il nuovo corso trumpiano sta già imprimendo le spinte del cambiamento. Sono bastate le voci sulle interlocuzioni tra il Tycoon e il Cremlino per suggerire a Zelensky di convertire il “Piano della Vittoria” in “Piano della Resilienza” (nessun vocabolo del gergo tecnologico ebbe mai così successo in politica). Kiev non cela la stizza per la telefonata di Scholz a Putin, segno che Orbàn non è più il solo a sfidare l’esecrazione osando l’arma diplomatica. Zelensky protesta contro la tentazione di Usa e Germania – primi due finanziatori netti dell’Ucraina in ginocchio – di scavalcarlo intromettendosi negli affari del suo Paese. La “diplomazia del telefono” dice che tira aria di pur lasco prenegoziato. Nel caso di Berlino, sul tavolo ci sarebbe anche il ripristino del mercato energetico russo-tedesco: una necessità ovvia e vitale, che la stretta di Trump sull’Europa rende viepiù pressante. Vediamo perché.

L’iniziativa del cancelliere è il frutto acerbo della svolta trumpiana ed è collegata alla crisi di maggioranza aperta con il licenziamento del ministro delle finanze Lindner e capo del partito liberale, contrario all’ennesima richiesta di sforare il tetto annuo del debito fissato in Costituzione, avanzata per sostenere l’industria tedesca in caduta libera, rimasta alla canna (chiusa) del gas russo. Il divorzio con l’est ha sovvertito i presupposti di un’economia orientata all’export competitivo grazie ai prezzi di Gazprom. Contenere i salari non basta più a compensare l’impennata dei costi e le strettoie frapposte tra Ue e Cina su istruzione di Washington.

Le esportazioni verso l’Atlantico sinora hanno offerto agli Usa un portafogli tedesco colmo di dollari da reinvestire nei titoli del debito pubblico a stelle e strisce. Ora però Trump agita la minaccia dei dazi sotto il naso dell’Europa, per spingerla a spendere di più Oltreoceano: l’obiettivo di riattivare il tessuto produttivo statunitense passa attraverso lo stimolo mercantilistico teso a riequilibrare la bilancia commerciale. Lo stesso vale per le spese militari. Difficilmente il ricatto del disimpegno dall’Europa, volto a estorcere più contributi alla Nato, si tradurrà nello smantellamento delle basi Usa qui da noi. Trump piuttosto conta su nuove commesse presso il comparto bellico nazionale, sia perché la crisi industriale non consente agli europei di sfornare tutte le armi in casa propria, sia perché le tecnologie in uso all’Alleanza sono omologate al marchio dell’egemone. Ecco perché il riallestimento degli arsenali svuotati per le forniture all’Ucraina è un’opportunità oggettiva.

In questi termini, l’impasse non concerne la sola Germania che, in quanto locomotiva, può trascinare con sé i vagoni delle economie agganciate. Le ingiunzioni di spesa trumpiane confliggono con il Patto di Stabilità e il “pilota automatico” dell’austerità Ue. A meno che, per non violare il taboo dell’uso espansivo della spesa pubblica, non ci si affidi ai sacerdoti della finanziarizzazione, dragando capitali privati tramite le Big 3 (BlackRock e sorelle) dei fondi speculativi, che ora furoreggiano nel rilevare i pacchetti azionari degli asset occidentali.

L’occasione di addossare sull’Europa il carico dell’Ucraina (dalla prosecuzione della guerra, se la si vuole, fino alla ricostruzione) è l’epifenomeno di una riprogrammazione posturale, che non guarda in faccia a nessuno pur di realizzare il “Make America Great Again”, tanto da assimilare Europa e Cina in quanto a disfunzionalità per gli Usa.

Eppure la variabile trumpiana da sola non basta. O meglio, non la si comprende al di fuori di un processo che da tempo vede gli Usa cercare nuove formule di sostenibilità delle sfide globali. C’è continuità con le pressioni di Obama sugli “scrocconi” euroatlantici; e viepiù con il mercantilismo marca Biden, che ha allarmato Bruxelles quando ha mostrato di voler attrarre, mediante sussidi e defiscalizzazioni, capitali di investimento e industrie europee.

Trump si accinge a tirare reti già gettate, distinguendosi per stile e metodo, con strattoni che accelerano le dinamiche in atto. Avulso dall’internazionalismo liberale piegato al disegno unipolare, facendo sua la spregiudicatezza realista che alla bisogna schiaffeggia i gregari e scende a patti con i nemici, il Tycoon conferma l’attitudine a vedere nell’Europa più che una succursale, una riserva fidelizzata da cui attingere durante le “vacche magre”.

Ora la differenza, abnorme, la sta facendo il colpo di coda dell’amministrazione dem che, con Parigi e Londra, ha appena autorizzato Kiev a colpire il territorio russo con missili a lungo raggio. Poco importa se si tratta di un bluff, forse limitato al pretesto nordcoreano nel Kursk, o se l’intento è sabotare l’agenda del successore alla Casa Bianca, paralizzare Scholz e le tentazioni “telefoniche” di altri emuli: per il mondo e per l’Europa prima di altri conta che a Mosca, stando così le cose, ciò equivale a un atto di guerra della Nato meritevole di risposta.

Con i nodi venuti al pettine, ai leader europei sta la scelta: farsi travolgere passivamente da scelte e rivalità altrui, votandosi al suicidio al culmine dell’inconsistenza strategica, oppure intercettare gli eventi per salvare responsabilmente le sorti del continente. E non solo.

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