Salwa Salem. Con il vento nei capelli.
Nacque a Yafa, in Palestina, nel 1940: il luogo e il decennio sbagliati per vivere un’infanzia spensierata.
A soli otto anni, Salwa si trovò a dover lasciare con grande dolore la sua città, inglobata nello Stato di Israele e terreno della guerra arabo-israeliana.
“[…] Esplosioni, fumo, fiamme, grida e volti impauriti.
Così, all’improvviso, uno squarcio nella mia memoria. […]
Si sentiva parlare del trattamento disumano che avevano subito gli ebrei nella Seconda guerra mondiale, ma ci si chiedeva perché dovevamo essere noi a pagare per gli orrori commessi da altri.
Era troppo difficile accettare che in un attimo tutto fosse andato perduto, che sulla nostra terra ora esisteva un nuovo stato, con persone nuove che non avevano mai visto la Palestina, che non ne conoscevano le tradizioni, la lingua, la terra, i profumi.
Era una tragedia troppo grande. Io vivevo nel rimpianto del tempo felice di Yafa.”
In un primo momento, si trasferì con la famiglia a Nablus, in Cisgiordania.
Trascorse gran parte della sua giovinezza in un clima culturale particolarmente stimolante, seguendo le orme dei fratelli maggiori, impegnati nella difesa dei diritti dei palestinesi, e affacciandosi al mondo della lotta politica.
Aveva un rapporto molto profondo soprattutto con il più grande dei suoi tre fratelli.
La sostenne in maniera particolare nella sua formazione intellettuale e politica.
Nella vita di Salwa ebbe un ruolo determinante lo studio di testi letterari e filosofici.
Le permisero di confrontarsi con modelli poliedrici di femminilità e di affinare il suo sguardo critico.
Tra le grandi figure a cui si approcciò, particolarmente centrale fu Simone de Beauvoir, il cui pensiero fu strutturale alla crescita culturale di Salwa.
Passarono pochi anni e, durante l’adolescenza, il frutto dei suoi studi e della sua incredibile curiosità cominciò a manifestarsi.
Salwa tirò fuori la sua personalità ribelle e determinata entrando nel partito laico e socialista di Ba’ath e organizzando la lotta studentesca a scuola.
Scelta che la portò persino ad essere allontanata temporaneamente dall’istituto.
Sempre in prima fila nelle manifestazioni.
Arrivò il momento per Salwa di portare le sue rivendicazioni anche all’interno del nucleo familiare che, per quanto piuttosto aperto, era profondamente ancorato alle tradizioni arabe.
Come prima cosa si rifiutò di portare il velo, il màndil, trascinando in questa sua battaglia anche le sorelline più piccole.
Dopo di che si oppose al matrimonio combinato, fermamente determinata a voler continuare gli studi e la militanza.
“La cosa che preoccupava di più i miei genitori era la mia reputazione.
Da noi esiste un’espressione particolare per indicare le ragazze troppo libere: ‘ala hall shàriha’ che significa ‘con i capelli sciolti’.
Ho sempre trovato molto singolare che un’immagine così bella, l’immagine di una ragazza con i capelli al vento, fosse un’espressione offensiva. […]
Non sono mai stata una ragazza leggera, non sono mai andata ‘ala hall shari’, come temeva mio padre, ma sono sempre riuscita a ottenere ciò che volevo, a fare anche cose un po’ spericolate e a godermi sempre il vento nei capelli.”
Quest’implacabile sete d’indipendenza la portò a seguire il fratello in Kuwait, dove si stabilì tra il 1959 e il 1966.
Salwa Salem
Furono anni duri.
Dovette coniugare lo studio universitario alla facoltà di Filosofia di Damasco e il lavoro d’insegnante di lettere, ma che la portarono a conquistarsi i suoi spazi di autonomia.
Le speranze che aveva risposto nel Kuwait si rivelarono vane. Non le tolsero quel senso di oppressione che sentiva nel cuore da che era bambina.
Così lasciò il paese e si mise in viaggio verso la tanto sognata Europa.
La meta prescelta è Vienna, il compagno di viaggio è suo marito Muhammad.
Nonostante le grandi aspettative di luci, musica e possibilità, Salwa si scontrò con una città completamente opposta a quella che aveva sognato.
Covò nel cuore quella che chiama delusione occidentale.
“Per loro gli arabi erano sottosviluppati, selvaggi, arretrati. […]
Le donne arabe per loro erano quelle figure nere, coperte, scalze, macchie senza personalità e non esseri umani”.
Così il periodo in Austria lasciò in lei un senso doloroso di isolamento e solitudine, aggravato dallo scoppio della guerra dei sei giorni nel 1967 e dall’esilio imposto dalla vittoria israeliana: si sentì “orfana per la seconda volta” e le sue angosce private svanirono davanti alla grande tragedia.
“Abbiamo gli occhi rossi per le lacrime e per la stanchezza. Non riusciamo ad avere notizie dei nostri cari, tutti i contatti sono interrotti. Ci sentiamo distrutti. Nessuno parla, nessuno mangia. Siamo impietriti, disperati, impotenti. Noi che eravamo fuori dalla Palestina perdemmo per sempre il diritto di tornare. Eravamo tagliati fuori, stranieri, non eravamo più nessuno. Avevamo di nuovo perso tutto, eravamo di nuovo senza terra, senza casa, senza un punto d’appoggio”.
La rinascita arrivò nel 1970, quando, diventata insostenibile la situazione in Austria, si trasferì a Parma con Muhammad e i loro due bambini, raggiungendo il cognato.
Gli anni italiani risvegliarono in lei l’entusiasmo giovanile: arrivò un’amatissima bambina e iniziò una nuova era di attivismo politico.
Infatti, in Italia si cominciò a parlare di Palestina e Salwa colse al volo l’opportunità di portare avanti la lotta per la liberazione della sua terra e di affacciarsi ai gruppi del movimento femminista degli anni ‘70.
Instaurò rapporti duraturi e costruttivi con l’Associazione per la Pace, il Centro di Documentazione delle Donne di Bologna e la Casa delle Donne di Torino, a cui apportò il suo impegno nel sostegno dell’intifada palestinese e la sua disponibilità al confronto aperto e critico con un sistema culturale e ideologico molto diverso dal suo.
“Considero la mia attività politica con le donne una parte importante della mia vita. Pur avendo condiviso con gli uomini molti momenti della mia formazione intellettuale, con le donne mi sento più a mio agio, trovo una maggiore possibilità di discutere, di capirsi. Credo che le donne abbiano un modo diverso di vedere la vita e la politica, la maternità insegna alle donne la concretezza, il loro istinto di protezione le rende pacifiche, nemiche della guerra, sensibili ai grandi problemi dell’umanità.”
A poco più di cinquanta anni raccolse la sua esperienza di palestinese esule in una lunga testimonianza, scritta in collaborazione con Laura Maritano.
Ne nasce il libro “Con il vento nei capelli. Vita di una donna palestinese.”, edito nel 1993, un anno dopo la scomparsa dell’autrice.
Dall’autobiografia traspare un’eterna tensione fra tradizione ed emancipazione, fra sogno di pace e necessità di lotta.
Inoltre, il libro si erge a paradigma della condizione esule ed errante del popolo palestinese, con l’espressione di un attaccamento viscerale alla propria terra che diventa tanto più forte e sentito, quanto più se ne viene allontanati.
È nell’esilio che matura la “palestinità”.
Nell’erraticità si rafforzano il legame con le origini e il continuo slancio vitale alla ricerca di una vita impegnata, attiva e felice.
“Ho ancora voglia di partecipare, di dare, di lavorare, di vedere la Palestina libera […] Però nessuno è indispensabile, tutto viene dimenticato e io sono una persona qualunque. Per questo desidero tanto raccontare la mia storia, farne un libro. […] Mi interessa che questa storia vissuta arrivi a tanta gente. Per non andarmene senza lasciare tracce. Chiudo gli occhi, ripenso alla mia vita, alla strada che ho fatto prima di ritrovarmi qui, alle mie radici. Rivedo le luci della mia terra, i riflessi d’argento delle distese di ulivi, riesco a sentire il profumo dei fiori d’arancio, l’aria fresca e il sole finalmente tagliente delle prime giornate di primavera.”
Fonte: vitaminevaganti