Il burnout si definisce come un tipo di stress lavorativo
è una sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale, che si rivela principalmente nelle professioni con alto impatto relazionale.
Solitamente nasce da un deterioramento che influenza valori, dignità, spirito e volontà delle persone colpite.
Il termine è apparso la prima volta nel mondo dello sport, nel 1930, per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti.
Significa letteralmente “bruciarsi”: il soggetto che è colpito da burnout comincia a sviluppare un processo di decadenza psicofisica dovuta alla mancanza di energia e all’incapacità di far fronte allo stress accumulato, fino ad arrivare a quella che, con una metafora, è l’immagine di una candela che si consuma fino a spegnersi.
I primi a descrivere tale fenomeno col nome di burnout e ad avviare delle ricerche sull’argomento furono lo psichiatra statunitense di origine tedesca Herbert Freudenberger nel 1974 e la sociologa Christina Maslach nel 1976.
Freudenberger[1], in particolare, descrisse la sindrome di burnout portando avanti delle osservazioni all’interno di un reparto di igiene mentale, dove aveva sperimentato un progressivo impoverimento emozionale e motivazionale ed una conseguente riduzione dell’impegno professionale di alcuni operatori.
Negli anni ’80 presero avvio numerosi studi empirici sul burnout che consideravano campioni di persone più ampi, e che avevano lo scopo di trovare gli strumenti più adatti per valutare ed accertare la sindrome.
Nacque così il metodo di valutazione Maslach Burnout Inventory, noto anche come Scala di Maslach, che è stato messo a punto dalla Maslach e Susan E. Jackson[2] nel 1981.
Nel 2000 Maslach e Leiter[3] hanno evidenziato tre dimensioni della sindrome:
deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro;
deterioramento delle emozioni originariamente associate al lavoro;
problemi di adattamento tra la persona ed il lavoro, a causa delle eccessive richieste di quest’ultimo.
Il burnout è una malattia in costante e graduale aumento tra i lavoratori dei paesi occidentalizzati a tecnologia avanzata.
Non significa che qualcosa non funziona più nelle persone, bensì che si sono verificati cambiamenti sostanziali e significativi sia nei posti di lavoro sia nel modo in cui si lavora.
È una sindrome che si diffonde nel tempo con costanza e gradualità, risucchiando le persone in una spirale discendente dalla quale è difficile riprendersi.
Molti contesti lavorativi richiedono una forte dedizione ed un notevole impegno, sia in termini economici sia in termini psicologici e, in certi casi, i valori personali sono messi in secondo piano.
Le richieste quotidiane rivendicate dal lavoro, dalla famiglia e da tutto il resto consumano l’energia e l’entusiasmo del lavoratore.
Quando poi successo, conquista ed obiettivi sono troppo ambiziosi e quindi difficili da conseguire, molte persone perdono la dedizione data al lavoro e cercano di tenersi a distanza pur di non farsi coinvolgere.
DIMENSIONI TIPICHE DEL BURNOUT Esaurimento E’ la prima reazione allo stress prodotto da eccessive richieste di lavoro o da cambiamenti significativi.
Quando una persona sente di aver oltrepassato il limite massimo sia a livello emozionale sia fisico: si sente prosciugata, incapace di rilassarsi e di recuperare, manca energia per affrontare nuovi progetti, nuove persone, nuove sfide.Cinismo Quando una persona assume un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e delle persone che incontra sul lavoro, diminuisce sino a ridurre al minimo o ad azzerare il proprio coinvolgimento emotivo nel lavoro e può abbandonare persino i propri ideali/valori.
Tali reazioni rappresentano il tentativo di proteggere se stessi dall’esaurimento e dalla delusione, si pensa di essere più al sicuro adottando un atteggiamento di indifferenza, specialmente quando il futuro è incerto, oppure si preferisce ritenere che le cose non funzioneranno più come prima, piuttosto che vedere svanire in seguito le proprie speranze.
Un atteggiamento così negativo può compromettere seriamente il benessere di una persona, il suo equilibrio psico-fisico e la sua capacità di lavorare.Inefficienza Quando in una persona cresce la sensazione di inadeguatezza, qualsiasi progetto nuovo viene vissuto come opprimente.
Si ha l’impressione che il mondo trami contro ogni tentativo di fare progressi, e quel poco che si riesce a realizzare, appare insignificante, si perde la fiducia nelle proprie capacità e in sé stessi.
Fig. 14 – Dimensioni tipiche del burnot – https://www.psicologiadellavoro.org/?q=content/burnout
Il modo migliore per prevenire il burnout è puntare sulla promozione dell’impegno nel lavoro
Ciò consiste nel ridurre gli aspetti negativi presenti sul posto di lavoro e cercare di aumentare quelli positivi.
Le strategie per aumentare l’impegno sono quelle che accrescono l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia, sostenendo i lavoratori, permettendo loro di affermarsi tra i loro colleghi, lasciando loro dell’autonomia decisionale ed offrendo loro un’organizzazione del lavoro chiara e coerente.
Riconoscere la sindrome del burnout non è così facile, spesso si tende a ricondurre il tutto come un problema dell’individuo e non del contesto lavorativo nel suo insieme.
Le organizzazioni quasi sempre ignorano questo problema e questo rappresenta un errore molto pericoloso, in quanto il burnout può incidere pesantemente sull’economia dell’intera organizzazione.
Covid e psiche: più ansiosi, depressi, esauriti ed in burnout, sono i lavoratori della sanità veronese
Durante quella che in molti hanno definito una vera e propria «guerra contro Covid-19», numerosi sono stati i fronti che hanno richiesto intervento.
In particolare, il personale sanitario si è trovato sotto assedio e vi rimane ancora oggi.
Da qui la necessità dello studio “The Sustained Psychological Impact of the Covid-19 Pandemic on Health Care Workers One Year after the Outbreak—A Repeated Cross-Sectional Survey in a Tertiary Hospital of North-East Italy”, pubblicato sulla rivista International Journal of Environmental Research and Public Health, che ha rivalutato l’impatto psicologico subito dal personale dell’azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona (Aoui) dopo una precedente valutazione effettuata ad aprile-maggio 2020. Covid-19, studio veronese rivela: «Disagio psicologico per il 90% degli operatori sanitari»
Primo autore dello studio è Antonio Lasalvia, docente di Psichiatria del dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento all’università di Verona, con la collaborazione di Chiara Bonetto, tecnico di Psichiatria, Angela Carta e Stefano Porru, docenti di Medicina del lavoro, Francesco Amaddeo, docente di Psichiatria, Ranieri Poli, docente di Igiene generale e applicata e Luca Bodini, dottorando in Psichiatria.
La ricerca, secondo quanto riportato in una nota dell’ateneo scaligero, ha messo in evidenza che, a distanza di un anno dall’inizio della pandemia, «lavorare all’interno dell’ospedale ha prodotto ulteriore sofferenza emotiva negli operatori, i quali si sono trovati a gestire nel corso del biennio 2020-2021 tre ondate pandemiche».
Attraverso «questionari standardizzati», compilati dal personale in maniera telematica, si è arrivati a coinvolgere un «campione di 1.033 persone, rappresentativo di tutti i dipendenti Aoui».
I dati raccolti, spiega sempre la nota dell’ateno scaligero, mostrano che «le persone con livelli elevati di ansia sono passate dal 50% al 56%, quelle con depressione dal 27% al 41%, quelle in burnout, ovvero esaurimento su piano emotivo dal 29% al 41%».
A tal riguardo, il professor Antonio Lasalvia spiega: «L’incremento si è mantenuto stratificando per profilo professionale e reparto, con un incremento più marcato per la depressione e il burnout.
A distanza di un anno dall’inizio della pandemia, gli infermieri rappresentano la categoria professionale a maggiore rischio di ansia e depressione, mentre gli specializzandi a maggiore rischio di burnout, soprattutto per quanto riguarda il senso di efficacia professionale.
Lavorare in contesti di terapia intensiva si associa ad un aumentato rischio di sviluppare maggiore esaurimento emotivo e un atteggiamento di maggiore distacco dal lavoro».Infine, spiega sempre la nota dell’università, alla luce dell’aggravamento del livello di sofferenza emotiva del personale sanitario, proprio a causa dell’incessante stato emergenziale protrattosi ormai per due anni, lo studio qui appena esposto «ritiene utile programmare e testare l’efficacia di un progetto di intervento in grado di ridurre in queste persone il livello di disagio che si ripercuote negativamente sul lavoro quotidiano a beneficio dei pazienti».
fONTE: veronasera
Fonte: psicologiadellavoro